Il realismo sociale di Giorgio La Pira

Il realismo sociale di Giorgio La Pira

8 Giugno 2018 0 Di Rocco Gumina

Fra le diverse e ricche personalità che il movimento cattolico italiano ha espresso durante il Novecento, Giorgio La Pira appare – nella problematica realtà sociale e politica del dopoguerra italiano – come un narratore del realismo evangelico a favore dei poveri. Spinto dall’ascolto della Parola di Dio – soprattutto dal passo inerente il giudizio finale espresso in Matteo 25, 31-46 – si è schierato da costituente, da deputato alla Camera, da sottosegretario al Ministero del Lavoro, da sindaco di Firenze a favore degli ultimi. Recuperare la vicenda dell’impegno politico di Giorgio La Pira permette di delineare una testimonianza sul realismo sociale della visione cristiana.

Nato nel 1904 a Pozzallo in Sicilia, si trasferì a Firenze per ultimare gli studi giuridici dove, negli anni Trenta, la sua opera politica cominciò a svilupparsi – in contrapposizione al fascismo guerrafondaio e razzista – con la proposta sulla difesa dei diritti inviolabili della persona avanzata tramite la rivista Principi. Durante la seconda guerra mondiale, pian piano divenne un punto di riferimento per la cattolicità italiana. Fu coinvolto per la stesura del Codice di Camaldoli e venne invitato in qualità di relatore ai grandi convegni della FUCI e del Movimento dei Laureati Cattolici. Nel frattempo, partecipò alle riunioni di “casa Padovani” dove un gruppo di professori della Cattolica di Milano – fra questi Dossetti, Fanfani, Lazzati – riflettevano sulla ricostruzione dello Stato e della società italiana da compiere dopo il crollo del fascismo e la fine della seconda guerra mondiale. Tale attività lo mise in vista e lo fece apprezzare da buona parte del mondo cattolico, tanto che fu invitato dal cardinale di Firenze Dalla Costa a candidarsi nelle fila della Democrazia Cristiana prima per la Costituente e poi come membro della Camera dei deputati. Da componente dell’Assemblea Costituente fornì un grande contributo per la stesura dei primi dodici articoli fondamentali della nuova Costituzione Italiana. Successivamente, sia come sottosegretario al Ministero del Lavoro sia come sindaco di Firenze condusse un’intensa attività politica per la piena occupazione, per il piano case, per la pace nel Mediterraneo e nel mondo. L’opera in favore della pace lo vide impegnato sino alla morte avvenuta nel 1977.

Terminata la seconda guerra mondiale, l’Italia si avviava alla ricostruzione sociale e politica. Dopo l’impegno alla costituente, La Pira divenne deputato alla Camera e sottosegretario al Ministero del Lavoro retto da Fanfani. Il più importante problema politico di quegli anni era la diffusa disoccupazione. Di fronte a questa situazione, La Pira si attivò a partire dal concetto della promozione umana così come era stata dichiarata negli articoli fondamentali della nuova Costituzione. Il governo italiano di quegli anni, retto dalla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, era diviso sulle modalità politiche ed economiche di affrontare la disoccupazione e in genere i problemi sociali. Da un lato c’erano i liberali guidati da Einaudi e Pella i quali puntavano alla stabilizzazione della lira, dall’altro vi erano i dossettiani – e fra questi La Pira – che sulla scia delle tesi economiche di Keynes chiedevano più investimento statale in vista di una maggiore occupazione. Nel 1950, con due articoli – intitolati L’attesa della povera gente e Difesa della povera gente – dalle colonne della rivista dossettiana Cronache sociali La Pira lanciò una mediazione fra teorie keynesiane e dottrina sociale della Chiesa in vista di una politica economica che prendesse sul serio il problema della crisi sociale. Per il costituente, il governo era chiamato a perseguire il solo obiettivo di compiere una lotta organica contro la disoccupazione e la miseria rivolta all’ottenimento del pieno impiego.

Per via della sua opera a favore della povera gente, La Pira fu attaccato da più parti. L’accusa più pesante gli arrivò dall’anziano fondatore del Partito Popolare Italiano, don Luigi Sturzo, il quale dichiarò che La Pira cercava di avverare una sorta di “statalismo della povera gente”. La risposta del sindaco non si fece attendere e si caratterizzò dall’impatto realistico, pratico, umano e solidale che ormai contraddistingueva la sua azione: «Cosa deve fare il sindaco, cioè il capo e in un certo modo il padre ed il responsabile della comune famiglia cittadina? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: – scusate, non posso interessarmi di voi perché non sono statalista ma un interclassista? Con la scusa che non essendo statalista ed essendo interclassista ed anticomunista egli non ha il dovere di fermarsi e provvedere? […] Che cosa deve rispondere il sindaco di una città agli sfrattati, ai licenziati, ai disoccupati, ai miseri che si presentano – e giustamente – da lui per chiedere casa, lavoro, assistenza? Devo forse dire: sa non sono statalista, mi dispiace ho poco da fare. […] Cosa risponderà quel poveretto? Questo è un cristiano? Un sindaco? Questo è un mascalzone, un fariseo!» (G. La Pira, Lettera a don Luigi Sturzo, 1954).

Dalla testimonianza lapiriana deduciamo che l’ispirazione evangelica della sua opera politica lo spingeva ad un realismo sociale il quale non poteva che condurlo alla scelta preferenziale per i poveri. In tal modo, attraverso un’attività laica come quella della politica e nel pieno rispetto di questa dimensione, la sua esperienza si caratterizza per la narrazione e l’attuazione del Vangelo ai poveri tramite i mezzi tipici dell’amministrazione e del governo dello Stato e di un comune.

 

Rocco Gumina

CONDIVIDI QUESTO ARTICOLO