“La chiesa di Francesco è politica, non politicante”. Intervista a Massimo Faggioli

“La chiesa di Francesco è politica, non politicante”. Intervista a Massimo Faggioli

8 Giugno 2020 0 Di Rocco Gumina

Da poco più di due mesi è iniziato l’ottavo anno di pontificato di Papa Francesco. Sono passati sette intensi anni dalla sua elezione che ha sorpreso molti a partire da coloro che aspettavano il nuovo vescovo di Roma in Piazza San Pietro. Dal dialogo ecumenico alla riforma della Chiesa, dall’attenzione ai giovani e alle famiglie alla vicinanza alle periferie dell’umanità, il pontificato di Bergoglio è ricco di spunti che permettono di riflettere su di un bilancio provvisorio della sua azione pastorale.

Discutiamo di questo tema con Massimo Faggioli. Storico e teologo, Faggioli è docente ordinario nel dipartimento di Theology and Religious Studies alla Villanova University (Philadelphia, USA). Vive negli Stati Uniti dal 2008 e nei suoi studi si occupa principalmente di storia del cristianesimo, di cattolicesimo contemporaneo, di storia delle istituzioni ecclesiastiche, dei nuovi movimenti cattolici e del nesso fra religione e politica.

 

– Professore, possiamo azzardare un bilancio dei primi sette anni del pontificato di Francesco? Se sì, quali sono le principali peculiarità di questo periodo?

Difficile fare un bilancio del pontificato in corso, anche se questo periodo di pausa e sospensione dovuta alla pandemia si presta a una riflessione. Credo che il punto forte, il momento in cui il pontificato ha lasciato un segno indelebile, si sia avuto tra 2014 e 2016, con il Sinodo in due parti su famiglia e matrimonio seguito da Amoris Laetitia, e poi Laudato Si’. Francesco non ha avuto timore di esplicitare la pastoralità della dottrina su questioni-bandiera per un certo cattolicesimo militante e intransigente, e lo ha fatto tenendo ben presente la carica ideologica e partitica che una certa cultura cattolica usa quando parla di famiglia e matrimonio, ma anche sui rapporti tra economia e potere in Laudato Si’. Questo è secondo me il portato più importante del pontificato e infatti è quello che ha causato maggiori tensioni.

Tutto questo in una spinta a una nuova visione globale del cattolicesimo, non più identificato con un retroterra culturale europeo e un modello sociale borghese. Una delle peculiarità del pontificato è anche il tipo e la violenza verbale della resistenza contro l’insegnamento del papa, proveniente specialmente da settori del cattolicesimo negli Stati Uniti legati alla grande finanza. Questo ha mostrato uno dei tratti tipici del nostro tempo, il razzismo: che l’opposizione a Francesco negli USA è anche l’opposizione al primo papa latinoamericano, dal sud del mondo. La fase due del pontificato ha aperto la questione sinodale nella chiesa, con una fase centrale (dai Sinodi di Francesco al Sinodo sulla sinodalità programmato per il 2022 in Vaticano), ma anche momenti locali molto importanti, come in Germania e in Australia. La seconda fase è ancora in corso, e risente di un rallentamento dovuto alla pandemia.

 

– Con l’Evangelii gaudium, la Laudato si’, l’Amoris laetitia, la Gaudete et exsultate, Francesco ha dato un contributo sia teologico sia pastorale all’interpretazione e alla concretizzazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II. A suo parere, quali sono le principali caratteristiche della riforma spirituale e culturale proposta da Francesco?

Rispetto ai predecessori Francesco ha un rapporto diverso col concilio perché non è uno dei padri né dei teologi del concilio, ma ne è figlio. La sua ermeneutica conciliare non ha bisogno di citare il concilio troppo spesso; tutta la sua teologia respira e ispira il Vaticano II. Al tempo stesso, Francesco ha anche un rapporto diverso col post-concilio, più libero e risolto, meno antagonistico rispetto a questo o quel singolo aspetto delle turbolenze postconciliari. In parte si deve alla provenienza latinoamericana, ma anche al suo essere gesuita. Qui si vede l’interpretazione di Francesco del rinnovamento conciliare: non come ripetizione alla lettera del dettato conciliare, ma come momento genetico di una visione di chiesa.

Non è solo una chiesa più attenta al sociale come esso è e come esso c’è, ma anche alla dimensione pastorale nel senso della pastoralità della dottrina. Evangelii gaudium, Amoris laetitia, e Gaudete et exsultate proseguono una traiettoria conciliare nell’ecclesiologia, la teologia della famiglia, e la chiamata universale alla santità; Laudato Si’ rappresenta un passo in avanti radicale rispetto alla tradizione precedente, specialmente per quanto dice sui rapporti tra potere e conoscenza, e sulla posizione inequivoca della chiesa rispetto alle grandi questioni ambientali come questioni sociali. La pandemia in corso mostra chiaramente e conferma l’importanza cruciale di Laudato Si’.

– Intanto con Francesco pare superarsi in modo definitivo il modello di Chiesa dirimpettaia alle istituzioni governative per avanzare una forma più dialogica di presenza pubblico-politica rispetto al passato. Concorda?

Credo che quello che caratterizza Francesco nel suo rapporto con le istituzioni governative e internazionali sia un superamento del blocco delle questioni “non negoziabili”, come si vede per esempio dai messaggi e discorsi di Francesco alle istituzioni europee. Il magistero della chiesa su quelle questioni non è cambiato, ma non si pretende che si possa aspettare a collaborare col mondo fino a quando il mondo non si convertirà al magistero della chiesa. Il messaggio della chiesa può essere annunciato anche in modi diversi e può cambiare la realtà in modi diversi.

Da un lato, Francesco ha detto parole coraggiose sulla necessità di collaborazione tra chiesa e istituzioni dello stato laico, per esempio durante la pandemia che pure solleva questioni delicate sulla libertà religiosa. Dall’altro lato, Francesco ha anche chiaramente rifiutato la tentazione di una chiesa al servizio di un certo progetto o patto politico strategico – in Italia come altrove. È un impegno forte al dialogo, ma anche una concezione alta di laicità, in un momento in cui un certo cattolicesimo militante (anche qui negli USA) respinge il concetto stesso di laicità. Allo stesso tempo, la chiesa di Francesco non è neutrale ma chiaramente dalla parte dei poveri e di coloro che sono senza voce: è una chiesa politica ma non politicante.

– Specialmente in Europa, le numerose spinte nazionaliste si legano ad un concetto identitario di cristianesimo. Questo fattore pare contraddire gli insegnamenti proposti da Francesco. Spinte che sembrano sempre più connesse, in modo diretto o implicito, all’opposizione ecclesiale a Bergoglio. È così?

Credo che sia così, e fin dall’inizio del pontificato. Però dal punto di vista politico-globale il pontificato ha goduto di una prima finestra di tempo propizio fino al 2016, in cui Francesco gode di una situazione meno sfavorevole, almeno in occidente. Poi col 2016 arriva prima Brexit e poi l’elezione di Trump, e poi tutto il resto: il pontificato deve remare contro vento, anche perché certi movimenti politici danno voce e forza ad alcune voci dentro la chiesa. Dietro ai movimenti neo-nazionalisti che animano Brexit e Trump (come anche in Brasile o in Europa orientale) ci sono settori significativi della chiesa cattolica che non sono esattamente sulla stessa linea d’onda di Francesco su molte questioni. Su questo ha ragione lo studioso cattolico britannico Terry Eagleton: la questione centrale diventa quella identitaria attorno a una certa concezione di “cultura” –cultura occidentale contro orientale, bianca-europea contro globale, gay contro straight, etc.

A parole i movimenti nazionalisti e identitari sembrano combattere contro la globalizzazione economica, ma in realtà mirano a colpire la globalizzazione culturale che è quella che mette in difficoltà una idea identitaria di religione ridotta a “cultura”. Francesco è un radicale anche nel senso che rifiuta di ridurre la fede cristiana a “cultura” o a “valori morali”: il che significa smentire tutta una serie di ideologie nazional-religiose che declinano il cattolicesimo in senso identitario, come oggi in Ungheria, negli Stati Uniti, ma anche in Italia.

– Con il suo magistero, Francesco ci ricorda che l’intero messaggio cristiano ha una dimensione sociale. In tal modo, il Papa pare aver aggiornato la riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa registrando la valenza sociale del kerygma. Negli Stati Uniti d’America come è stato recepito questo insegnamento?

Francesco incontra molto favore tra i cattolici e gli statunitensi che hanno visto negli ultimi tre decenni l’ascesa di un cattolicesimo “culturale” e politico organico al Partito repubblicano, che dal punto di vista della dottrina sociale però è più vicino al protestantesimo evangelico che alla dottrina sociale della chiesa. Da questo punto di vista, Francesco ha liberato e ridato cittadinanza a componenti importanti della chiesa cattolica negli USA, per lungo tempo marginalizzati (da Dorothy Day negli anni cinquanta fino ai missionari cattolici attivi nella chiesa latinoamericana della teologia della liberazione). Ma la sfida è ancora aperta. Gli Stati Uniti sono uno scenario particolare per comprendere questo pontificato, perché Francesco è il successore di due papi particolarmente popolari nel cattolicesimo conservatore nordamericano, per motivi diversi. Francesco invece è il primo papa globale in quanto proveniente dal “global south” e questo rappresenta una sfida per gli Stati Uniti: per Francesco gli Stati Uniti sono un paese non più eccezionale o al centro del mondo, e il cattolicesimo nordamericano non rappresenta più il modello per la ripresa della chiesa nel mondo secolarizzato.

In un certo senso, il rapporto difficile tra il Vaticano di Francesco e gli USA di Trump sono solo l’aspetto più superficiale di una divergenza profonda: il cattolicesimo che si globalizza a partire dal Vaticano II ma in modo più cosciente dal Vaticano di papa Francesco da un lato, e gli Stati Uniti e il cattolicesimo degli Stati Uniti che hanno perso la leadership mondiale a favore dell’Asia. Da un certo punto di vista, la chiesa cattolica negli USA è una chiesa occidentale, ma da altri punti di vista è una chiesa del “global south”. Ha un futuro incerto. Quel che è certo è che non sarà la stessa immaginata dai neo-conservatori negli anni novanta, né quella sognata dai teologi del progressismo radicale degli anni settanta. Francesco rappresenta un modello terzo rispetto a queste due grandi correnti nella chiesa degli USA.

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

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