“La libertà religiosa non è mai stata messa in dubbio”. Intervista a Pierluigi Consorti

“La libertà religiosa non è mai stata messa in dubbio”. Intervista a Pierluigi Consorti

20 Maggio 2020 0 Di Rocco Gumina

Oltre alla crisi sanitaria e all’emergenza sociale, fra i risvolti della pandemia da Covid-19 possiamo annoverare una rinnovata attenzione alla relazione fra diritto e religione. In Italia, come nel resto d’Europa, la Chiesa cattolica, le confessioni cristiane, le comunità islamiche e le altre religioni hanno chiesto ai governi di tornare a svolgere le celebrazioni religiose con l’avvio della cosiddetta fase 2. Nel nostro Paese, dopo la decisa presa di posizione della Conferenza Episcopale Italiana, è possibile celebrare i riti dal 18 maggio.

Pierluigi Consorti

 

Di questo tema discutiamo con Pierluigi Consorti. Professore ordinario nell’Università di Pisa, Consorti è presidente dell’Associazione dei professori universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso (Adec). Per i tipi della Laterza è appena uscito il suo volume Diritto e religione. Basi e prospettive.

 

 

– Fra le limitazioni alle libertà personali operate dai governi per arginare la diffusione del virus, è presente anche quella connessa alla libertà di culto. Professore, in questo modo i governi hanno violato l’indipendenza delle religioni?

I governi devono tener conto delle singole leggi nazionali, che a questo riguardo non sono tutte uguali. In linea di principio, la libertà religiosa può essere limitata per legge per motivi di salute pubblica, in quanto la tutela della salute e della vita prevale sugli altri diritti. Si tratta di un principio elementare di buon senso. Inoltre, i diritti di libertà devono essere bilanciati fra loro, ed è quindi accettabile che uno possa cedere di fronte ad altri. Perciò è del tutto legittimo che i governi adottino misure restrittive dei diritti di libertà se necessarie alla salvaguardia della vita e del bene comune.

Davanti all’emergenza esplosa all’improvviso, i governi non hanno potuto fare altro che adottare un rimedio antichissimo: quello del contenimento e distanziamento sociale. Un tempo si costruivano i lazzaretti, e adesso siamo stati obbligati a restare chiusi in casa. Questa restrizione della libertà di movimento si è riflessa su altre libertà, come quella di riunione e di celebrazione comunitaria del culto. A ben vedere la libertà religiosa come tale non è mai stata messa in dubbio, anche se si è realizzata una trasformazione della pratica del culto, che tuttavia non si è mai interrotta.

Questi cambiamenti sono stati adottati liberamente dalle diverse religioni come rimedi utili alla prevenzione del contagio e non solo come obblighi imposti dagli Stati. In Italia le autorità confessionali hanno stabilito misure restrittive della celebrazione dei riti pasquali prima del Governo. In Germania, dove la giustizia è più veloce, i Tribunali hanno sempre dato torto ai cittadini che reclamavano la lesione della loro libertà religiosa per l’impossibilità di celebrare riunioni di culto, proprio perché questa compressione del loro diritto non derivava dalla legge statale, ma da autonome decisioni delle autorità confessionali. Perciò non si può dire che l’indipendenza delle religioni sia stata violata. Stati e religioni hanno combattuto – e stanno combattendo – come alleate contro un nemico comune, che è il virus.

 

– Da questa crisi pare emergere con chiarezza che il modello socio-giuridico delle religioni, in Italia soprattutto la cristianità cattolica, non potrà più essere quello dell’istituzione dirimpettaia allo Stato. Concorda?

Si. Credo che le società contemporanee non possano replicare la logica medievale delle relazioni fra Stato e religioni come rapporti fra poteri indipendenti e sovrani. L’Italia da questo punto di vista deve concludere un percorso più difficile, in quanto la storia nazionale è segnata dal conflitto fra Stato e Chiesa cattolica, che si è risolto solo in parte coi Patti lateranensi e poi con l’Accordo di Villa Madama. L’art. 7 della Costituzione ha fotografato una realtà storica che non racconta più la realtà sociale. Sia lo Stato che la Chiesa sono molto cambiati, e anche la società di oggi è profondamente diversa, plurale, multiculturale, laica.  È vero che nelle ultime settimane lo schema concordatario ha fatto nuovamente capolino, da entrambe le parti. L’emergenza ha risvegliato qualche nostalgia autoritaria facendo dimenticare che Stato e Chiese sono impegnate a collaborare per promuovere il bene comune. In questa contingenza, si tratta della salute dei cittadini, ma più in generale il «progresso materiale e spirituale della società», per usare le parole della Costituzione.

Vede, la questione non è tanto quella del rapporto fra Stato e Chiese, quanto quella della promozione della libertà religiosa di tutti, senza distinzioni. La libertà religiosa non riguarda tanto – o, comunque, non soltanto – le istituzioni religiose, ma tutti, anche chi non crede. Infatti, essa coinvolge anche la libertà di pensiero e di coscienza, perciò non si limita a garantire la separazione istituzionale o la distinzione degli ordini. Anche qui, ogni Stato fa i conti con la propria storia: nel Regno Unito la Regina è tuttora il Capo della Chiesa, in Germania le confessioni religiose sono soggetti di diritto pubblico, la Spagna ha un’intesa anche coi musulmani, e l’Italia non può non essere condizionata dalla presenza a Roma del Capo universale della Chiesa cattolica. Siamo ancora dentro un processo.   

 

– Dopo la decisa nota della Conferenza Episcopale Italiana a seguito del DCPM del 4 maggio, il governo italiano ha riconosciuto alla Chiesa cattolica un ruolo da protagonista nella trattativa per il ritorno all’esercizio pubblico della libertà di culto. Secondo lei le altre confessioni e religioni sono state poste in secondo piano?

In realtà le cose sono andate un po’ diversamente rispetto a quanto è emerso da una narrazione un po’ affrettata – a causa proprio dell’emergenza – e un po’ polemica – a causa della cronica instabilità della politica nazionale. Le prime restrizioni di marzo hanno preso tutti alla sprovvista. Non si capiva ancora bene l’entità del problema e il famoso Dpcm sospendeva tutte le riunioni, comprese le «cerimonie religiose», utilizzando una formula imprecisa, che non si prestava a interpretazioni immediate. Peraltro, le chiese potevano restare aperte, ma restavano inaccessibili dato che la regola generale impediva di uscire senza motivi validi: e quello di recarsi in chiesa non figurava fra questi. Anche se si ammetteva che qualcuno entrasse in chiesa nel caso in cui questa si trovasse sul tragitto che determinava uno spostamento consentito. Diciamo che la gestione dell’emergenza ha incontrato molti ostacoli, e questo è uno di quelli.

In questo quadro tutte le autorità religiose hanno chiesto al governo di esprimersi con maggiore chiarezza per capire che cosa in concreto fosse possibile fare e che cosa era certamente vietato. La Chiesa cattolica ha dovuto fronteggiare qualche posizione interna estrema, che invocava strumentalmente la sua indipendenza concordataria e, purtroppo, anche una sorta di esenzione religiosa dal pericolo del contagio. Voglio dire che il Governo non ha mai ostacolato la ripresa delle celebrazioni, che ha subordinato all’assunzione delle precauzioni sanitarie necessarie. La Cei si è convinta di questo, e ha stilato un suo autonomo Protocollo, che è stato poi sottoposto al vaglio del Comitato tecnico scientifico, che una prima volta lo ha bocciato, e poi invece accettato, e quindi sottoscritto anche dalle autorità di governo.

Le altre confessioni religiose hanno seguito un percorso meno polemico. Hanno prima condiviso senza esitazioni che le attività pastorali potevano riprendere solo in sicurezza, e poi domandato al Governo di valutare singole specificità. Ad esempio, garantire una mobilità interregionale dei ministri di culto. Devo dire che questo percorso è stato molto fruttuoso. Ci sono stati incontri a distanza per valutare insieme le singolarità, che si sono poi tradotte in distinti Protocolli. Per la prima volta, il dialogo ha coinvolto anche Confessioni religiose senza intesa, che si sono alleate nella ricerca di soluzioni che tenessero insieme la precauzione e la ripresa delle celebrazioni collettive. L’emergenza in questo caso ha prodotto un risultato positivo. Anche se ha confermato un trattamento differenziato per la Chiesa cattolica, che affonda le sue radici nella storia cui ho accennato.

 

– I commenti sulla conversione della giovane cooperante Silvia Romano dimostrano quanto la nostra opinione pubblica sia ancora lontana dal comprendere la densità dei fenomeni religiosi connessi alla società, alla cultura e alla politica. Quale ruolo pubblico-politico immagina per le religioni nel XXI secolo in nazioni come la nostra?

Le religioni non sono solo istituzioni. Esse fanno parte dell’umanità nella misura in cui il sentimento religioso costituisce l’identità personale. Questa dimensione si articola diversamente. Ognuno la vive a modo suo. Qualcuno la nega, altri la considerano un fondamento ineliminabile, e in molte occasioni costituisce una ragione di appartenenza collettiva e identitaria. Perciò il ruolo pubblico della religione dipende da tante circostanze complesse e diverse. Com’è noto, l’Islam vive una dimensione politica della religione che non ha maturato la stessa distinzione tra sfera pubblica e sfera privata vissuta dal Cristianesimo. Tuttavia, anche il Cristianesimo declina in modo diverso questa distinzione, e la tentazione di influenzare la politica non è ancora venuta meno. Anzi, in Italia assistiamo ad una rinnovata strumentalizzazione della religione cattolica in termini di identità nazionale. Insomma: critichiamo la visibilità pubblica dell’Islam, ma sottolineiamo l’importanza della religione cattolica nella politica italiana.

Le offese a Silvia Romano rientrano in questo schema semplificato di appartenenze identitarie. Se la giovane fosse scesa dall’areo triste, provata e magari vestita con una tuta da ginnastica, nessuno si sarebbe lamentato. Invece lei è apparsa come una donna sorridente, in abiti che la identificavano come una «diversa». Addirittura, islamica: quindi una traditrice dell’identità nazionale. Non so se Silvia volesse esibire la sua fede religiosa o fosse semplicemente vestita con gli abiti che indossava normalmente, non so se fosse partita credente o atea o agnostica, o magari in ricerca. So che la religione è qualcosa di personalissimo e che ciascuno dovrebbe potere liberamente scegliere. Io penso che la società nazionale del XXI secolo dovrebbe essere laica. Ammettere che ciascuno possa essere se stesso. E possa presentarsi in pubblico come più gli piace, senza per questo essere additato o peggio discriminato. Una società laica saprà esprimere scelte pubbliche laiche, dando il giusto spazio anche alla visibilità pubblica della religione, senza però consentire che questa invada lo spazio pubblico imponendo direzioni univoche. Come ho detto, la libertà religiosa è di tutti, senza distinzioni.

 

– Con il suo magistero sociale, Papa Francesco insiste continuamente sulla dimensione sociale del Vangelo. Nel nostro Paese, talvolta dopo gli interventi da parte dei cattolici, torna spesso il tema della tutela della laicità dello Stato. Al pari del modello francese, possiamo parlare di un paradigma italiano di laicità delle istituzioni? Quali le sue principali caratteristiche?

La laicità non costituisce un modello univoco né immutabile. Al mondo ci sono diverse espressioni di laicità, condizionate dalla storia e dalle aspettative sociali. Lei parla di un modello francese, ma qual è il modello francese? Non certo quello tradizionale della laicità ostile di stampo illuminista. Questa laicità combattiva è tramontata per lasciare spazio ad una laicità dialogica, che ha attribuito un ruolo sempre più significativo al confronto con le diverse sensibilità religiose. Allo stesso modo, la laicità italiana ha subìto variazioni nel tempo. Secondo me, essa non è ancora compiuta. È più proclamata che vissuta.

Le istituzioni repubblicane sono laiche in termini di principio, tuttavia – come abbiamo visto – prevale ancora una spontanea accondiscendenza verso una sostanziale prevalenza della Chiesa cattolica, che volenti o nolenti rimane il punto di riferimento da cui rilevare differenze o analogie. Non si tratta di una scelta politica, ma di un dato di fatto sociale. Io non credo che la società italiana sia religiosamente cattolica; penso però che lo sia culturalmente. Per me, questo costituisce un problema religioso, in quanto l’assimilazione della religione ad un habitus culturale tradisce il senso stesso della religiosità.

In ogni caso ho l’impressione che le istituzioni repubblicane stiano apprendendo l’arte del dialogo con tutti, senza – troppe – distinzioni. Da questo punto di vista siamo all’inizio di un percorso. Io questo lo chiamo il vero «principio» di laicità. Speriamo che dopo il principio arrivino altre tappe del percorso.

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

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