“La società meticcia è già fra noi”. Intervista al prof. Roberto Cipriani

“La società meticcia è già fra noi”. Intervista al prof. Roberto Cipriani

17 Giugno 2018 0 Di Rocco Gumina

Sulla tematica delle migrazioni abbiamo intervistato Roberto Cipriani, docente di sociologia presso l’Università Roma Tre e presidente nazionale dell’Associazione Italiana Docenti Universitari.

 

– Gli attentati terroristici nel cuore d’Europa, gli sbarchi di migliaia di uomini e donne sulle coste italiane, la mancata integrazione delle diversità culturali, sono le prove che confermano la nefasta profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà”?

Si tratta di un tipico esempio di profezia che si autoavvera. Cioè: il fatto di predire un fenomeno ed un evento in qualche misura favorisce che il tutto possa accadere. Il libro di Huntington dal titolo The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order risale al 1996 (in italiano nel 2000) e dunque era in anticipo rispetto al crollo delle torri gemelle a New York, 11 settembre 2001, dovuto all’impatto di due aerei dirottati da esponenti del movimento fondamentalista islamico sunnita al-Qāʿida, che faceva capo a Osama ben Laden. Il libro di Huntington è più ideologico che scientifico ed è il tipico esempio di un wishful thinking cioè di un pensiero carico di desiderio che le cose vadano in un certo modo. In fondo il suo auspicio è che siano gli Stati Uniti ad avere poi la meglio alla fine ed a riconquistare l’egemonia sul pianeta.

Quanto agli sbarchi c’è da dire che non si tratta di una novità. Chi conosce la storia sa bene di trasmigrazioni cospicue da una terra all’altra anche nel passato, per tante ragioni: economiche, climatiche, politiche, religiose. Per esempio la presenza di popolazioni arabe ed islamiche in Europa non è per niente un fatto straordinario e senza precedenti: per oltre sette secoli, dall’ottavo al quindicesimo, gran parte del continente europeo più ad occidente (oggi Portogallo e Spagna) fu dominata dagli arabi, che giunsero anche in Sicilia e poi in Sardegna, Calabria, Campania e Puglia. Basti ricordare la cospicua serie di torri “saracene” (di difesa contro i saraceni) lungo i litorali mediterranei. Non mancarono tentativi di mediazioni interculturali, promosse fra l’altro da Federico II, re di Sicilia, nel XIII secolo. Quei tentativi non ebbero effetti duraturi ma lasciarono tracce importanti di buona riuscita. Dunque a maggior ragione anche oggi l’acculturazione come confronto e collaborazione fra le culture sarebbe praticabile: basta prescindere dall’idea di uno scontro inevitabile perché le soluzioni si trovino.

 

– La presenza degli stranieri nei grandi e nei piccoli centri dell’Italia e dell’Europa dà vita al fenomeno delle “città parallele”. Di che si tratta? È possibile evitarlo?

Le dinamiche migratorie hanno sempre prodotto situazioni di tipo ghettizzante: si tratta oltretutto di una forma di autodifesa e di preservazione delle proprie radici culturali. La formazione delle “città parallele” è una conseguenza scontata delle agglomerazioni che si formano attraverso la nota fenomenologia della catena migratoria, per cui un soggetto emigrato tende a chiamare presso di sé in primo luogo i familiari e poi i propri amici e conoscenti e comunque persone appartenenti alla medesima comunità, con lingua, costumi e riti condivisi.

Persino all’interno di un’unica cultura, per esempio quella barbaricina della Sardegna, si verifica la situazione delle “città parallele”: i provenienti da Orune (in provincia di Nuoro) che si trasferiscono nel capoluogo di provincia tendono ad aggregarsi nel quartiere denominato “Pedra e istrada”, da dove in lontananza si scorge il proprio paese d’origine. La divisione della città santa interreligiosa di Gerusalemme in quartieri è ben nota: ebraico, musulmano, cristiano e armeno. Nel mondo sono numerose le Chinatowns nelle quali gli immigrati cinesi si concentrano, come sta avvenendo anche a Roma nella zona di Piazza Vittorio, dove però la segregazione non è totale, in quanto non c’è una tipica porta d’ingresso che segnala l’accesso alla parte cinese della città. Pertanto si potrebbe dire che pur a fronte di una propensione dei cinesi a vivere in disparte nondimeno qualche forma più aperta di contatto ed interazione pare possibile. In alcuni casi l’integrazione ha successo grazie soprattutto alla socializzazione scolastica, per cui non è raro incontrare nuove generazioni di cinesi che parlano bene l’italiano, pur mantenendo un aggancio forte con la specifica cultura cinese di provenienza. Ad Istanbul la divisione passa principalmente tra quartieri europei ed asiatici. I tre quartieri asiatici sono Üsküdar, Haydarpasa e Kadiköy. I tre quartieri occidentali sono Fatih, Fener e Balat. Gli altri quartieri della capitale turca sono variamente caratterizzati: Galata è il quartiere dei genovesi, Besiktas ha un carattere misto ottomano-europeo, Tophane è un riferimento artistico d’impronta giovanile nella nuova Istanbul, Beyoglu è la moderna Istanbul europea (ma non del tutto e perciò cosmopolita) con l’importante via Istiklal Caddesi dove tradizione ed innovazione si congiungono (vecchi tram l’attraversano e negozi di informatica la costellano), Bilgi è il quartiere universitario,  Eyüp quello più popolare dal punto di vista religioso per la presenza della tomba di Eyüp Ensari (compagno del profeta Maometto), Sultanahmet è il quartiere europeo più antico e turistico. Tutto ciò è il frutto inevitabile di interconnessioni multiple ed imprevedibili nei loro sviluppi attuali e futuri.

 

– Perché, a suo parere, lo straniero è tendenzialmente visto come una minaccia dalla comunità che lo ospita?

Ovviamente è un processo che si instaura di fronte a qualcosa di differente, che non si conosce e che in qualche misura si vuole essere capaci di gestire. Vi è subito una tendenza ad esprimere una valutazione negativa, del tutto indipendente dalle caratteristiche reali della persona considerata diversa. In effetti si opera in base ad un vero e proprio pregiudizio, costruito su frasi fatte, luoghi comuni senza alcuna prova effettiva, proverbi, espressioni ricorrenti, giudizi sommari senza dati di fatto. Molto giocano anche l’apparenza, il tipo di abito indossato, la maniera di parlare e gesticolare, il colore della pelle, e tanti altri fattori ancora. Insomma si ricorre alla stigmatizzazione dell’altro, al suo etichettamento, per escludere a priori una comunanza di interessi e stili di vita. Si teme che il forestiero apporti danni, voglia defraudarci, depredarci, compiere atti vandalici, persino stupri (in questo caso una prima indicazione di colpevolezza riguarda quasi sempre e subito l’immigrato di colore). Eppure, almeno in linea di massima, chi giunge nel nostro paese lo fa per motivi molto seri e costringenti: in fuga da una persecuzione, la guerra, la fame, la povertà, la malattia; alla ricerca di un luogo di sopravvivenza; per trovare la possibilità di un futuro migliore per sé e la famiglia; per dare uno sbocco positivo alle proprie attese di occupazione e di creazione di una famiglia autosufficiente.

La minaccia impersonata nella figura dello straniero è anche il frutto di una visione solo dicotomica della società in buoni e cattivi. Ovviamente l’altro fa parte della società cattiva. E ne fa parte per partito preso, senza che se ne siano conosciuto il carattere, il livello di sapere, il vissuto, la provenienza, la motivazione della mobilità da un paese ad un altro, il bagaglio di competenze. Insomma ancora una volta si preferisce la condanna previa ancora prima della conoscenza diretta.

– La storia della Sicilia, come quella del resto d’Europa, ci dice che la civiltà si rinnova continuamente con la mescolanza di culture, di religioni e di etnie. Possiamo dire che la società meticcia è il futuro?

La società meticcia è già fra noi, come in tante altre parti del mondo. Le moderne tecnologie, lo sviluppo delle comunicazioni, l’accelerazione e l’accessibilità dei trasporti hanno fatto sì che il mescolamento dei soggetti e delle loro culture abbia subito un processo di allargamento e di incremento delle possibilità di incontro, scambio, confronto. Si prenda ad esempio il rapporto fra le religioni. Ad un atteggiamento di distacco se non di ostilità (specialmente in alcuni casi) è subentrato un orientamento verso una maggiore frequentazione reciproca, la stipula di accordi, la condivisione di istanze di comune interesse, specialmente in chiave di diritti umani e di libertà religiosa. Si sono in effetti create delle abitudini, delle consuetudini, che hanno portato anche a prese di posizione formale, dichiarazioni comuni, incontri interreligiosi (famosi quelli di Assisi promossi dalla Comunità di Sant’Egidio). La Sicilia in particolare ha sperimentato sin dal passato soluzioni di meticciato a diversi livelli. Si pensi, in ambito religioso, alla compresenza di confessioni quali l’ebraismo, l’islamismo, il cattolicesimo, il cristianesimo orientale. Ci sono evidenti forme di accoglienza e di accettazione reciproca, che in misura emblematica si ritrova nei siculo-albanesi, i quali vivono la loro esperienza culturale e religiosa in quanto esponenti del cristianesimo orientale di appartenenza cattolica ma con rito bizantino (ed anche con rito cattolico, ma in minoranza) e sono ben inseriti nel contesto siciliano, nonché italiano ed europeo, restando saldamente connessi alle loro radici di fondo, mantenendo lingua, costumi e riti (anche se non sempre in forma completa e diffusa, il che è anche frutto della acculturazione fra culture diverse, albanese da un lato e siculo-italiana dall’altro). Detto altrimenti non vale sempre e solo la forza del numero (i siculo-albanesi sono una minoranza di poche decine di migliaia di persone) quanto il senso di appartenenza ad una comunità più ampia (gli albanesi in Albania e nel mondo) ma altresì il dovere fare i conti con una realtà di fatto qual è la collocazione della comunità albanese sul territorio siciliano.

 

– Sulle dinamiche e sull’incisività dell’integrazione, la scuola è chiamata a svolgere un ruolo di primissimo piano. Per quali motivi?

Come hanno convincentemente sostenuto Peter Berger e Thomas Luckmann (entrambi scomparsi di recente), la “costruzione sociale della realtà” passa in primo luogo attraverso la socializzazione primaria in famiglia e secondaria a livello scolastico e di gruppi di pari età. Insomma è la vita quotidiana che costruisce e modella atteggiamenti e comportamenti. Ecco perché la scuola è un luogo primario di intervento educativo. Messo a confronto il numero di ore passato in famiglia (con entrambi i genitori magari largamente assenti per motivi di lavoro) ed il tempo trascorso in ambiente scolastico è evidente lo sbilanciamento a favore della parte della giornata trascorsa in un’aula o comunque a contatto con soggetti che hanno sostanzialmente la medesima età. Di solito, poi, il gruppo già formatosi tra i banchi di scuola si ricostituisce anche al di fuori, in un ambito più libero, meno controllato eppure non sempre immemore di quanto appreso da insegnanti ed educatori. In tal modo si crea una certa continuità spazio-temporale fra tempo scolastico ed extra-scolastico, inteso quest’ultimo soprattutto come periodo trascorso al di fuori della famiglia. In definitiva la socializzazione è un processo fatto di piccoli atti, gesti ripetuti, parole abituali, modelli incorporati che si stabilizzano e diventano una sorta di habitus che accompagna l’individuo sociale.

Come scrivono Berger e Luckmann, in La realtà come costruzione sociale (traduzione che tradisce il titolo originale, del 1966, che era invece The social construction of reality. A treatise in the sociology of knowledge), “io apprendo la realtà della vita quotidiana come una realtà ordinata. I suoi fenomeni sono predisposti secondo modelli che sembrano essere indipendenti dal mio apprendimento di essi e che si impongono su quest’ultimo. La realtà della vita quotidiana appare già oggettivizzata, cioè costituita da un ordine di oggetti che sono stati designati in quanto oggetti prima della mia comparsa sulla scena” (pag. 35 dell’originale inglese).

 

– In un convegno sulle migrazioni nel Mediterraneo svoltosi presso la Facoltà teologica di Sicilia nel 2015, lei ha affermato che la teoria delle intelligenze multiple di Gardner potrebbe risultare utile per affrontare le problematiche delle migrazioni e dell’incontro fra diverse culture. Perché?

Certamente. Infatti le intelligenze multiple di Howard Gardner si inseriscono appieno nel processo educativo, come ampiamente dimostrato nel suo volume dal titolo Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, pubblicato in Italia nel 2005. E soprattutto consentono di riconoscere diverse capacità e potenzialità a soggetti molteplici e differenziati. Così dunque non si apprezzerà più sempre e solo la bravura in campo linguistico-verbale e/o logico-matematico ma anche le intelligenze e competenze musicali, quelle intrapersonali ed interpersonali, naturalistiche, fisiche e cinestesiche, visual-spaziali, spirituali, morali ed esistenziali che potranno dunque entrare in gioco e consentiranno di apprezzare l’altrui persona ed il suo valore, non misurato più sulla base di vecchi schemi precostituiti. In tal modo si stimolerà l’apertura mentale verso ulteriori possibilità intellettive, intese pure come know how ovvero conoscenza, esperienza, expertise, con forme e contenuti diversi dai modelli prevalenti, di natura piuttosto eurocentrica. In ambito scolastico ma anche altrove è possibile mettere a confronto culture diverse ed intelligenze differenziate, permettendo agli uni di capire ed apprezzare gli altri, magari mediante progetti specifici e dedicati all’implementazione di forme aperte di socializzazione che valorizzino le intelligenze multiple di allieve ed allievi. Così si evita di premiare ed enfatizzare esclusivamente le intelligenze logico-matematiche e linguistiche e si prende atto dell’esistenza di potenzialità impreviste e non conosciute. Ad esempio, un ragazzo od una ragazza di origine africana è probabilmente assai più in grado di interagire con il mondo naturale che altri od altre: insomma l’intelligenza naturalistica, anche per il proprio vissuto esperienziale, sarà probabilmente più ricco presso individui non europei. Il che proverà altresì la possibilità di collaborazioni e scambio a partire dalle basi articolate di intelligenza posseduta.

 

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

 

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