“Sicurezza e solidarietà possono coesistere”. Intervista a Marco Impagliazzo

“Sicurezza e solidarietà possono coesistere”. Intervista a Marco Impagliazzo

12 Maggio 2020 0 Di Rocco Gumina

Oltre all’emergenza sanitaria e all’arresto di molti settori economici, la pandemia da Covid-19 ha mostrato una volta per tutte la reale dimensione delle fragilità del nostro Paese. Dall’istruzione al mondo del lavoro, dallo sviluppo tecnologico al ridimensionamento della sanità pubblica, il Coronavirus ci induce a prendere sul serio la tematica delle diseguaglianze diffuse nelle nostra penisola. A pagare maggiormente le conseguenze di tale situazione sono i soggetti più fragili come i poveri, gli anziani, i migranti e gli adolescenti.

Discutiamo di questo tema con Marco Impagliazzo. Presidente della Comunità di sant’Egidio e membro del Dicastero Vaticano per i Laici, la Famiglia e la Vita, Impagliazzo è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma Tre. Editorialista di Avvenire, Impagliazzo è anche Consultore del Pontificio Consiglio della Cultura.

 

– Sicuramente la pandemia in atto non ha arrestato le diffuse povertà delle nostre città. Sin dalla sua fondazione, la Comunità di sant’Egidio ha coniugato la preghiera al servizio costante ai poveri che spesso non hanno una casa nella quale restare. In questo tempo, quale peculiarità ha assunto il vostro sostegno ai più fragili?

La pandemia ha certamente aumentato il numero dei poveri e di coloro che vivono in situazioni di disagio profondo. In questo senso se è vero che il virus ha colpito indifferentemente uomini e donne di ogni estrazione sociale, è anche vero che fare lockdown in una casa grande e spaziosa, dotata di tutti i comfort e di apparati tecnologici avanzati è tutt’altra situazione che farlo – o meglio non poterlo fare – vivendo per strada.

L’impegno di Sant’Egidio in questo tempo è stato ed è quello di portare alla luce la drammatica condizione di chi non ce la può fare da solo e di rispondervi concretamente. Penso alla condizione degli homeless, senza gente in giro che fa l’elemosina e con gli esercizi chiusi, molti rischiano di morire di fame: abbiamo continuato e potenziato i “giri” di distribuzione del vitto nelle città dove siamo presenti. O penso a quanti si sono improvvisamente ritrovati senza lavoro, con i risparmi bruciati in pochissimo tempo.

Si sono rotti equilibri già molto precari: le nostre mense hanno continuato a fornire pasti e dare sostegno. Insomma, pur rispettando tutte le disposizioni restrittive che il governo ha dovuto emanare a causa del virus, abbiamo mostrato che sicurezza e solidarietà possono anzi devono coesistere.

 

– Fra le conseguenze principali dell’emergenza che viviamo dobbiamo annoverare la solitudine di molte persone prima sostenute in un modo o in un altro dalle comunità. Così, paradossalmente, questo pare un tempo utile per riscoprire il valore delle reti umane. Condivide?

Certamente. Già da tempo, purtroppo, vivere da soli è uno stile che si è ampiamente diffuso nelle nostre città: a Milano, ormai, riguarda più del quaranta per cento dei residenti; a Roma siamo ben oltre il trenta per cento. La solitudine delle persone, tra cui quella degli anziani, è emersa come forma di grave debolezza e non di forza come si potrebbe pensare in una mentalità che “sacralizza” l’autonomia.

Abbiamo bisogno di legami, perché ci si salva solo insieme e non da soli. Uno degli impegni di Sant’Egidio in questi ultimi anni è stato proprio quello di ricostruire i legami tra le persone e le generazioni in tante città europee, a partire dalle periferie.

Mentre finiscono le reti nelle nostre società, ne scopriamo ora con la pandemia, l’importanza. Va ripensato il modello di società individuale e individualista che si sta costruendo. Abbiamo scoperto di essere tutti più fragili e bisognosi e la felicità è un pane che si condivide.

 

– I necessari atti governativi volti a contenere la diffusione del virus hanno chiamato in causa la responsabilità dei cittadini. Anche i credenti sono invitati a vivere con maturità l’appartenenza alla città degli uomini. Da questo punto di vista, quali caratteristiche può assumere oggi la cittadinanza attiva mossa dall’ispirazione cristiana?

Si discute molto in questi giorni se il coronavirus, quando sarà stato finalmente debellato, ci avrà fatti diventare più egoisti, più diffidenti verso gli altri, più preda di paure e fobie o invece ci avrà resi migliori, più attenti ai nostri simili, pronti ad immedesimarsi nelle difficoltà altrui, meno egocentrici. Io credo alla seconda ipotesi. In fondo tutti noi in queste settimane abbiamo fatto grandi sacrifici non solo per il nostro bene, ma per il bene degli altri. E ci siamo scoperti, forse inaspettatamente, uomini e donne responsabili. È un punto di partenza, ma decisivo.

In pochi giorni abbiamo avuto a Roma un’impennata delle richieste di impegno gratuito: quasi mille persone ci hanno chiesto di dare una mano per essere d’aiuto in qualche modo: telefonare agli anziani soli, portare da mangiare a chi non ce l’ha o non se lo può procurare, insomma mettersi a disposizione. “Quando siamo capaci di superare l’individualismo, si può effettivamente produrre uno stile di vita alternativo e diventa possibile un cambiamento rilevante nella società”, ha scritto papa Bergoglio nella Laudato sì. Questo è il frutto di una coscienza che si risveglia al desiderio di futuro e diventa “amicizia civica”.

 

– Fra i più colpiti dalla pandemia figurano gli anziani delle nostre comunità. La politica istituzionale, il terzo settore e il mondo del volontariato come possono sostenere coloro che spesso vengono considerati fra “gli scarti” delle nostre società e che, invece, rappresentano per svariati motivi un valore aggiunto?

È un sistema di ingiustizie e di diseguaglianze planetario, innervato dall’individualismo consumista e narcisista, che produce gli “scarti”. Gli anziani sono tutt’altro che scarti; senza di loro, che sono radici e memoria, non c’è futuro. La condizione degli anziani rappresenta oggi nel nostro mondo una profezia: per la loro fragilità, la loro resistenza, il loro altruismo. A me colpisce sempre vedere come, nel vuoto delle proposte o degli ideali, gli adolescenti, i giovani siano profondamente attratti dagli anziani: sono due generazioni lontane, ma simili per certi versi: entrambe perdenti nell’epoca del “presentismo” e della superficialità egolatrica degli adulti.

Per molti ragazzi è una vera sofferenza non poter andare a trovare i nonni e addirittura non poter stare accanto a loro e accompagnarli nella malattia e nella morte, come sta avvenendo spesso. Anche il presidente Mattarella lo ha detto: “Viene decimata la generazione più anziana, composta da persone che costituiscono per i più giovani punto di riferimento, non soltanto negli affetti, ma anche nella vita quotidiana”. I giovani di Sant’Egidio, di fronte alla vera e propria strage di anziani negli istituti a causa del virus e della imperdonabile trascuratezza in cui sono stati lasciati, si sono ribellati e hanno lanciato una campagna sui social, #SalviamoINostriAnziani, perché gli anziani siano protetti e accuditi come meritano. E a questo proposito va detto che se il coronavirus ci cambierà e niente dovrà essere più come prima, la prima cosa da cambiare è il sistema che condanna gli anziani fragili al ricovero in istituto.

Va superata la logica degli istituti dando a tutti gli anziani la possibilità di vivere a casa loro ed a casa essere assistiti fino alla fine dei loro giorni. Basti solo pensare che su 138.000 morti per Covid-19 in Europa, 68.000 – praticamente la metà – sono anziani in Rsa, in ospizio o in casa di riposo. Come scriveva Maria, un’anziana della cui lettera facemmo tanti anni fa un manifesto appello che fu sottoscritto da più di un milione di firme, “aiutate me e tutti gli anziani a restare a casa e a morire fra le proprie cose. Forse vivrò di più, sicuramente vivrò meglio”.

 

– Se il Coronavirus ha messo in ginocchio i sistemi sanitari e le reti sociali dell’Occidente possiamo ipotizzare che gli effetti nel continente africano siano peggiori. È così?

Sì, è così. Per questo dobbiamo fare una grande opera di prevenzione. Abbiamo ancora un po’ di tempo a disposizione, anche se non è molto. L’Africa sinora è stata solo parzialmente toccata dalla pandemia e i numeri dei contagi e dei decessi sono ancora contenuti. Ma occorre fare presto, agire in fretta. Il picco nel continente africano arriverà dopo la metà di maggio, ma già oggi la mortalità è più alta che in Occidente e arriva al cinque per cento.

Proprio pochi giorni fa abbiamo lanciato in conferenza stampa un programma straordinario per l’Africa con proposte concrete per la prevenzione da Covid-19. Da quasi vent’anni siamo presenti in molti paesi africani con l’esperienza dei centri Dream per la prevenzione e la cura dei malati di Aids e di malattie infettive, un modello a cui stanno già guardando alcune istituzioni pubbliche e sanitarie del continente. Siamo pronti alla mobilitazione dei diecimila volontari e operatori sanitari del nostro programma, addestrati da anni di lotta contro l’Hiv, la Tbc o Ebola.

Ho detto ai giornalisti che la pandemia di Covid-19 sta mostrando che siamo tutti nello stesso mare in tempesta, ma i paesi africani sono su barche molto più fragili e dobbiamo aiutarli. La rete sanitaria africana è in grande difficoltà con pochissimi posti in terapia intensiva, respiratori, dispositivi di protezione. Per questo bisogna lavorare rapidamente e con larghezza sulla prevenzione. Gli operatori dei nostri centri hanno familiarità con gli equipaggiamenti protettivi, dai camici monouso alle mascherine chirurgiche e i nostri laboratori di biologia molecolare sono dotati di infrastrutture già in grado di effettuare i test per il Covid-19.

In queste settimane già abbiamo predisposto programmi per la distribuzione di generi per la messa in sicurezza del personale sanitario. E poi c’è l’aspetto sociale: la povertà aumenta con le chiusure. E questo in situazioni già precarie possiamo immaginare cosa significa. Non voltiamo le spalle all’Africa proprio ora. Conosciamo i drammi e l’impatto delle migrazioni causate dalla povertà. Stiamo vicini agli africani per salvarci insieme.

 

 

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

 

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