
Cosa resta di Firenze? La quotidianità dell’emergenza educativa
Adesso che la manifestazione è finita, ora che gli scatti fotografici e i selfie hanno fatto il giro dei social e dei mezzi di informazione, nel momento in cui la politica – o meglio soltanto una parte di questa – si appropria della questione, cala il sipario. Resta la quotidianità che va vissuta dai giovani, dagli educatori, dalle famiglie poiché i titoloni dei giornali sono già dimenticati.
I fatti accaduti davanti al liceo “Michelangelo” di Firenze – l’aggressione condotta da alcuni giovani verso pari età – devono farci riflettere. Per adesso l’unica narrativa che pare emergere è quella dello scontro politico, ricostruito come se fossimo ancora in uno scenario novecentesco, che ahinoi raggiunge gli esiti della strumentalizzazione politica dimenticando totalmente la questione in gioco: i nostri giovani.
Nella vicenda di violenza giovanile di cui discutiamo, la politica c’entra. Eccome. Tuttavia, anziché denunciare i rischi di derive neofasciste neanche previsti dalle peggiori ipotesi di degenerazione della nostra società occorrerebbe riflettere sul perché nella nostra democrazia – e nella cosiddetta scuola democratica – i nostri giovani siano sempre meno capaci di dialogo, di dibattito e di contesa intellettuale. Al posto di ciò, ovvero in alternativa alle parole che molte volte mancano, emerge la violenza come linguaggio per la risoluzione dei problemi.
Ciò non riguarda le periferie degradate o le “scuole di frontiera”, non interessa in modo esclusivo gli scartati dalle nostre società o chi ha optato per “scelte sbagliate” bensì concerne integralmente le giovani generazioni. Quest’ultime, come denunciato quotidianamente dai fatti di cronaca, pare non abbiano appreso dalla “scuola democratica” le parole per poter conoscere l’altro ovvero per confrontarsi anche in modo deciso sulle questioni della vita, della politica, della società, delle emozioni a rilevanza pubblica e personale.
Invece, affiora la reale emergenza a cui tutti – in quanto adulti e perciò educatori – dovremmo stare attenti: la violenza è ormai divenuta linguaggio per la risoluzione delle questioni amorose, economiche, sociali e finanche politiche. La violenza è il linguaggio – spesso l’unico – usato da molti giovani per divertirsi oppure come effetto dello sballo congiunto al consumo di alcool o droghe o, ancora, per ottenere una sorta di “giustizia” altrimenti non applicabile da una società che preferisce strumentalizzare i drammi giovanili anziché accendere i fari per vedere e capire meglio.
Alla luce di questa interpretazione possiamo annotare come la violenza dei giovani di Azione Studentesca verso coetanei appartenenti a percorsi differenti possiede motivazioni politiche le quali, però, sono situate a valle del più importante tema dell’assenza di parole che caratterizza i nostri giovani i quali, in tal modo, optano per la violenza.
Penso che questa sia l’emergenza del nostro Paese. Su ciò dovremmo concentrare le nostre forze. Quanto affermato vuol dire che il problema di cui dibattiamo prima che avere le sembianze della politica avanza il bisogno sostanziale di educazione, di ascolto, di comprensione e pertanto di generazione di linguaggi alternativi alla violenza. Per fare questo non servono i politici alla ricerca dei selfie o i titoloni dei quotidiani ma occorrono educatori e formatori che passino il loro tempo con i giovani.
Facciamolo al fine di difendere la scuola prevista dalla nostra costituzione.
Rocco Gumina