“Il mondo sarà salvato dalla solidarietà”. Intervista a Savino Pezzotta

“Il mondo sarà salvato dalla solidarietà”. Intervista a Savino Pezzotta

15 Maggio 2020 0 Di Rocco Gumina

Fra i settori più colpiti dalla crisi generata dalla pandemia da Covid-19 vi è sicuramente il mondo del lavoro. Tra smart-working, e-commerce, cassa integrazione e rischio licenziamento, molti italiani subiscono un’emergenza del tutto inattesa che lascia, al momento, pochi spiragli di positività. Così il coronavirus, oltre alla salute pubblica, minaccia il lavoro inteso come caposaldo della nostra società la quale è chiamata a ripensarsi alla luce della metamorfosi in atto.

Savino Pezzotta

 

Discutiamo di questo tema con Savino Pezzotta. Già segretario generale della Cisl, parlamentare, promotore e portavoce del Family Day, presidente della Fondazione per il Sud, Pezzotta continua ad occuparsi di formazione politica, di sociale e di cooperazione internazionale.

 

 

 

Il mondo del lavoro è fra i settori più colpiti dalla pandemia. Il rischio è che la crisi economica sarà peggiore di quella sanitaria. È così?

Sì, il coronavirus è stato uno shock esogeno e inaspettato, un vero e proprio cigno nero. Avrà sicuramente un impatto parallelo sia sull’offerta che sulla domanda in quasi tutti i settori, compreso il mercato del lavoro. Questo determinerà un calo della crescita per effetto del periodo di confinamento e di sospensione delle attività industriali, del commercio e del turismo, ma i suoi effetti si prolungheranno sull’intero anno. Non si tornerà ai livelli precedenti, anche se bisogna dire che sentori di recessione erano già presenti prima dell’avvento dell’epidemia. Coronavirus o meno, l’economia italiana si stava già dirigendo verso un rallentamento economico: l’attività industriale dava segnali di affanno, il cuore industriale dell’Europa, principalmente tedesco, si stava già contraendo e avrebbe inevitabilmente trascinato la nostra economia sulla sua scia.

Il coronavirus rappresenta un buco, temporaneo, nelle nostre economie e ci porta sull’orlo dell’abisso della fortissima recessione o addirittura della depressione: ma senza di questa, la recessione sarebbe ancora con noi. Questo carattere “naturale” della recessione deve anche farci riflettere sulle condizioni per la ripresa: coloro che aspettano un rapido recupero in tempi brevi probabilmente scopriranno le debolezze intrinseche dell’economia italiana, che erano già presenti prima della crisi sanitaria.

Oltre la sicurezza sanitaria che bisogna garantire a tutti i cittadini e sui posti di lavoro, occorre che la questione del lavoro sia affrontata come primaria. Tenendo presente che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e se questo manca è la cittadinanza che viene colpita. La mancanza di lavoro, la crescita dei senza occupazione non è solo una questione di reddito come normalmente si pensa, ma riguarda l’essere cittadino e pertanto la dignità della persona e l’uguaglianza civile e politica. Mi sembra che ultimamente si sia intrapresa una strada diversa e si è pensato che bisognava garantire un reddito a tutti. Certamente ci sono situazioni in cui questo è temporaneamente necessario ma lo sbocco deve essere il lavoro.

Dopo due mesi di chiusura diventa problematico riprendere da dove si era rimasti. L’occupazione è il primo dei problemi: i lavoratori in cassa integrazione ordinaria e assegno ordinario, al 7 maggio 2020, sono 8.472.311. Si tratta di circa il 40% dell’intera occupazione dipendente e i dati sono parziali. Teniamo presente che oggi sei milioni 750 mila lavoratori beneficiano della cassa integrazione o dell’assegno ordinario per l’emergenza coronavirus, ai quali vanno aggiunti quelli in cassa integrazione in deroga. È una situazione nuova per il nostro Paese: mi chiedo cosa succederà quanto si riprenderà a pieno ritmo. Poi bisogna tenere presente, come la storia ci dimostra, che ogni crisi sanitaria o economica ha accelerato l’introduzione di nuove tecnologie che sostituiscono il lavoro umano. Da un po’ di tempo siamo entrati nella realtà digitale, ma ancora non vedo una grande attenzione a cosa provocherà su piano occupazionale e sulla vita delle persone e mentre ci addentriamo nel digitale non vedo predisporre progetti per rendere i lavoratori sempre più competenti. C’è un ritardo di elaborazione politica e sociale che mi preoccupa.

 

– Oltre alla chiusura di migliaia di attività, la pandemia obbliga all’adozione di nuovi modelli di sicurezza, anzitutto, per i lavoratori. Come valuta il ruolo dei sindacati in questa fase?

Il sindacato resta indispensabile se non si vuole che il peso di questa crisi venga caricato sulle spalle dei lavoratori e dei ceti più deboli. Molte volte sono stato critico con il sindacato, ma le mie osservazioni erano tese a dare una mano.

Ora, la pandemia ha aggravato la crisi di un mondo che era già in preda a molteplici difficoltà e a situazioni devastanti: la crescita della disuguaglianza, la distruzione del clima con eventi metereologici estremi, mutamenti delle stagioni, crescita della desertificazione e l’invasione delle cavallette in Africa che stanno distruggendo l’agricoltura e l’approvvigionamento nutrizionale di milioni di persone.

Credo che bisognerebbe trovare i mezzi, gli strumenti e la volontà politica per garantire a tutte le persone che vivono sul pianeta terra una protezione immediata dal virus e nello stesso tempo avviare un piano per ridurre le disuguaglianze, la fame, la miseria e abolire la guerra.

Mi si dice che questo è un sogno utopico. Sono convinto che senza un briciolo di utopia, come dimostra la situazione politica italiana, non si esce dalla crisi. Inoltre, agire su questi temi è un’occasione per creare nuovo lavoro e pertanto nuovo ben-essere. Il mondo non sarà salvato dalle tecnologie che sicuramente possono rendere la vita e il lavoro meno gravoso, ma dalla solidarietà, dall’uguaglianza e dalla sobrietà.

Su questo terreno mi attendo una grande mobilitazione del sindacato che non può cedere alle tensioni corporative che allignano al suo interno. Non bisogna mai dimenticare che il sindacato è solidarietà ed uguaglianza. La globalizzazione ha aumento enormemente la ricchezza globale ora è tempo di ripartirla in modo equo e sociale e a tutela del pianeta su cui viviamo.

 

Anche in momenti di grande incertezza e confusione dovuti al propagarsi del virus, la politica italiana non ci ha risparmiato inutili contrapposizioni. Siamo ancora in tempo per un accordo nazionale volto a superare la crisi?

Il problema di fondo della politica italiana è la mancanza di un orientamento culturale che faccia perno su alcuni valori di fondo. Il realismo politico non deve mai mancare ma perché sia tale deve essere valutato attraverso una chiara disamina alla luce dei principi e dei valori che si vogliono affermare e da una visione, una weltanschauung in grado di inquadrare l’idea del mondo sia da un punto di vista individuale che collettivo, abbracciando l’osservazione della realtà quotidiana, l’analisi scientifica specialistica, la riflessione razionale e l’intuizione spontanea.

Uno degli effetti più problematici dell’attuale situazione politica sta, a mio parere, nel fatto che tutti i nostri pensieri e visioni che avevamo praticato nella costruzione della Repubblica e nell’elaborazione della Carta costituzionale sono stati obliati. Per riprendere un nuovo discorso e una rinnovata prassi politica servirebbe che ogni concetto, ogni termine del lessico politico sia ripensato, storicizzato e ridefinito partendo dalle parole più semplice e comprensibili. Come andrebbe declinato in termini chiari e non onnicomprensivo cosa è la sinistra e cosa la destra e farlo con un nuovo linguaggio non più nostalgico.

La spaccatura riguarda il futuro che ci aspetta e si risolve in una contrapposizione manichea fra assistenzialismo e sostegno al sistema produttivo. Altro che solidarietà nazionale: l’Italia è sempre più percorsa da tensioni e incertezze profonde e da un diffuso malessere. C’è nel corpo della società un sentimento di costante insoddisfazione e di rancore. L’antipolitica e il populismo hanno generato razzismo e xenofobia e alimentato una costante sfiducia nella politica che sarà difficile recuperare. Certo, la società italiana ha risposto bene alle misure di restringimento predisposte per contenere l’epidemia e oggi sembra vivere come una liberazione l’allentamento delle misure di quarantena. Non ne è scaturita una sorta di disobbedienza generalizzata, perché le persone hanno capito cosa rischiassero e hanno esercitato il buon senso. Ora il ritorno alla normalità deve evitare che si avvii la ricerca del “capro espiatorio”.

L’incertezza riguarda il futuro che ci aspetta. E mi è sembrato stucchevole e fuori tempo la polemica e il tentativo di contrapposizione tra assistenzialismo e sostegno al sistema produttivo. Sono convinto che oggi servano misure di assistenza verso chi è stato maggiormente colpito e la messa in campo di politiche economiche, produttive e innovative. Sono convinto che molte delle questioni che dovremo affrontare non sono nuove, ma erano già presenti e che l’epidemia altro non ha fatto che accelerare e svelare. Bisognerà mettere mano al tema centrale della nostra economia, ovvero l’abbandono della logica-neoliberista tutta centrata sul mercato e la competizione.

In queste settimane abbiamo sperimentato che i grandi sconvolgimenti si affrontano con spirito e visione cooperativa in cui ciò che conta è l’apporto della persona e della comunità. Le critiche al sistema capitalistico sono oggi necessarie, non tanto per proporre un’alternativa ma un processo riformatore che porti a una visione centrata sul “prendersi cura”, sviluppando i germi e le sperimentazioni che si stanno facendo sulla “cura” e il “benvolere” e che da tempo sciamano nel nostro Paese attraverso una serie di associazioni, di movimenti femministi, ambientalisti, di imprese no-profit e cooperative. La soluzione non sta nell’assistenzialismo o nello statalismo ma nella sussidiarietà, nella solidarietà, nell’uguaglianza e nella democratizzazione dei poteri economici. Abbiamo bisogno di idee propositive e di un briciolo di utopia.

 

La stagione che viviamo ci lascerà, specie sul lungo periodo, più di qualche insegnamento. Fra questi, l’urgenza di costruire una politica più umana?

Non bisogna lasciarsi affascinare da chi ci chiede di “tornare a prima” e da chi dice che “nulla sarà come prima”. Il fatto che le persone siano state colpite negli affetti è una ferita che resterà e che influenzerà la nostra vita sociale. Come non sarà socialmente indifferente l’aver visto amici, parenti e persone care morire. La morte che avevamo dimenticato e messa da parte in modalità individualizzata, si è seduta al nostro tavolo ed è diventata una realtà vissuta socialmente. Vedere una fila di camion militari che portano via centinaia di bare lascia tracce indelebili che non si dimenticano. Come resterà il timore del contagio e del ritorno della malattia.

Quello che a mio parere è mutato è il senso e il significato dell’esistenza in relazione alla morte e alla malattia.  Crescerà la consapevolezza riguardo la propria fragile condizione di esseri che hanno un termine e l’esigenza di inondare di senso la propria esistenza vivendola autenticamente. Sarà molto difficile realizzare questa condizione essendo stati formati alla luce del relativismo e di forti tensioni edonistiche, ma credo che non si potrà sfuggire a ciò che maturerà dentro ognuno di noi.

Proprio perché questo è avvenuto, e resterà dentro le persone, che la politica deve cambiare priorità e stile e considerare le condizioni esistenziali delle persone non solo dal punto di vista dell’economia, del benessere materiale. Una sfida per costruire collettivamente il senso del vivere con altri.

 

La morte di migliaia di uomini e donne – tra cui molti anziani – è un evento che, oltre al dolore, provoca nelle nostre comunità una riflessione sui limiti della civiltà tecno-capitalista e sulle reali priorità da perseguire. Difatti, da questa tragedia potrebbe avviarsi una metamorfosi culturale dell’umanità. Condivide?

Questa tragico periodo che abbiamo vissuto ha mostrato l’inadeguatezza della proposta neoliberista sia sul terreno economico che culturale. Per prima cosa dobbiamo rifiutare di essere i prossimi olocausti del neoliberismo. Per fare questo serve modificare il nostro stile di vita ed esigere che la politica nazionale, europea e i corpi sociali organizzati come il sindacato si impegnino ad attuare o a richiedere e rivendicare che vengano introdotte politiche che siano all’altezza delle grandi questioni internazionali come la salute, l’istruzione, il cibo e l’ambiente. Si deve impostare un disegno riformatore che sia libero dai postulati e dalle leggende concepite dai grandi poteri finanziari dell’occidente: autoregolazione dei mercati, l’idea che l’egoismo individuale concordi oggettivamente con il bene comune, l’apoteosi dell’attuale sistema finanziario mondiale, la novella della crescita perenne, il determinismo tecnologico e la tecnocrazia.

Dobbiamo cercare di costruire un mondo che valorizzi la cooperazione, l’aiuto solidale, l’intelligenza collettiva, la condivisione e la convivialità, i beni comuni e l’accoglienza, la salvaguardia del creato e la cura delle persone a partire dai bambini, dagli anziani, dalle persone deboli fisicamente, psicologicamente e dell’insieme delle popolazioni. Per raggiungere questi obiettivi è necessario rafforzare la democrazia politica e avanzare decisamente sul terreno della democrazia economica. Non credo nell’uscita dal sistema capitalistico, ma che esso sia possibile riformarlo in termini di democrazia, di partecipazione e di equa distribuzione delle ricchezze e del potere.

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

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