
“Intraprendere la via istituzionale della carità”. Intervista al prof. Flavio Felice
Sui temi legati all’impegno dei cattolici in politica abbiamo intervistato Flavio Felice, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise e Presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton.
– In un recente articolo apparso sul Corriere della Sera, Andrea Riccardi ha delineato una breve mappatura in chiaroscuro dell’attuale presenza dei cattolici in politica. Qualche giorno dopo, con una lettera apparsa su Avvenire, l’on. Franco Monaco si poneva l’interrogativo sulla sopravvivenza del cattolicesimo sociale dopo la stagione dei vari Dossetti, La Pira, Bianchi ecc. A suo parere, nell’odierno scenario, in che termini possiamo parlare della relazione fra i cattolici e la politica?
È un tema molto interessante e, per certi versi, ricorrente durante i mesi estivi; non saprei dire se quest’ultima considerazione esprima una cifra positiva o negativa, se il clima vacanziero spinga a riflessioni più acute ovvero indirizzi il dibattito pubblico nella direzione di argomenti più frivoli. Di fatto, da anni ormai, nel periodo estivo torna il tormentone dei cattolici in politica. Personalmente, prendo questo tema molto sul serio e la ringrazio per avermi coinvolto in tale discussione. Innanzitutto, vorrei sgombrare il campo da un possibile equivoco. Se da un lato l’unità dei cattolici in politica non è un dogma, e storicamente si è realizzata solo a determinate condizioni, è altrettanto vero che non è neppure vietato che i cattolici – ovvero una parte più o meno consistente – si organizzino intorno ad un programma, una classe dirigente e un obiettivo che esprimano nella maniera storicamente possibile una qualche forma di unità. È chiaro che una possibile forma di unità dei cattolici italiani in politica necessita di una condizione preliminare, la reiterata scelta “aconfessionale” dell’azione politica, così come don Luigi Sturzo ebbe il coraggio e la capacità di fare in occasione della fondazione del Partito Popolare. “Aconfessionalità” nel senso di autonomia da possibili ingerenze da parte delle gerarchie di ogni ordine e grado: programma, classe dirigente e obiettivi definiti in autonomia dai laici cattolici. La condizione preliminare è che i laici cattolici italiani dimostrino di essere sufficientemente maturi di assumersi la responsabilità della direzione strategica del loro Paese: famiglia, scuola, impresa, lavoro, concorrenza, corruzione, rapporti internazionali e via dicendo, senza attendersi il sostegno, l’imprimatur e le linee guida dalle gerarchie, le quali sarebbero così finalmente libere dalla necessità di mettere le mani nella melma della politica (quest’ultima è un’espressione di Sturzo). Questa fu la condizione che rese possibile la nascita del partito che per primo seppe rappresentare i principi, i valori e gli interessi dei laici cattolici italiani e anche per questa ragione Sturzo dovette scontare ventidue anni di esilio durante il ventennio fascista. Quindi, rispetto al metodo, “aconfessionalità” che significa – sturzianamente – tanto “intransigenza” quanto “discernimento” rispetto ai principi della Dottrina sociale della Chiesa con i quali selezionare la classe dirigente e i punti fondamentali dell’agenda programmatica e, nel contempo, metodo “popolare” (democratico) nell’articolazione della struttura organizzativa, affinché sia aperta e le sue cariche contendibili mediante un processo competitivo.
– Dalle colonne de La Repubblica, il nuovo presidente della CEI Gualtiero Bassetti ha sostenuto, rifacendosi a Mounier e a Maritain, che l’antidoto alla crisi è la cultura della carità la quale pone al primo posto la dignità dell’uomo. All’indomani della fine della Democrazia Cristiana, i cattolici sembrano aver omesso – rispetto ad altre responsabilità per il sociale e nel variegato mondo del volontariato – l’impegno per la “carità politica”. É così?
Non saprei e non vorrei essere categorico in una materia estremamente complessa, come complesso e plurale è il mondo cattolico. Non c’è dubbio che l’impegno politico in un partito è in disarmo un po’ ovunque e non solo nel mondo cattolico; la fine della DC coincide con la fine di un mondo diviso in determinati blocchi: non che oggi il mondo non sia diviso, ma di certo sono mutati i blocchi. Oltretutto, non credo che ciò sia necessariamente un male, in quanto l’impegno civile non è riducibile a quello politico. Sulla scorta dell’insegnamento di Sturzo, il politico è una fattispecie del civile (sociale) e non il suo “vertice sintetico”, la forma che lo esprime in nome di un presunto primato e che lo monopolizza a danno delle altre forme: la famiglia, l’impresa, la cultura e via dicendo. Per questa ragione, il fatto che sia diminuito l’impegno dei cattolici all’interno di un partito politico non significa necessariamente che sia venuta meno l’istanza civile dei cattolici italiani: penso alle tante opere nel campo dell’impresa, del nonprofit, del volontariato e dell’associazionismo, tutte espressioni, nel campo del sociale, non meno significative dell’agire politico all’interno di un partito. A questo punto però non intendo evadere la sua domanda sulla “carità politica”, poiché la considero importantissima. Se Papa Paolo VI ci ha insegnato che la politica può essere la più alta forma di carità, Papa Benedetto, in Caritas in veritate, ci ha illustrato il modo in cui tale alta forma di carità si implementa, prende forma nella storia. Nel paragrafo 7 della suddetta enciclica, Papa Ratzinger afferma che il fine della politica si traduce nella capacità di dar vita ad istituzioni che sappiano rispondere ai problemi dell’umana contingenza, offrendo gli strumenti che consentano di giungere lì dove i singoli direttamente non riescono ad arrivare, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Per questa ragione, la “via istituzionale della carità”: la politica, non è “meno qualificata ed incisiva” della via diretta. Il compito della politica, dunque, è definito primario in quanto comporta “il prendersi cura e l’avvalersi di un complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale mondiale, in modo tale che prenda forma di pólis, di città dell’uomo”.
– Per Giorgio La Pira, i credenti hanno una missione “trasformante” da compiere in politica al fine di “mutare” le istituzioni e, quindi, orientarle al bene comune. Dopo l’erosione della Democrazia Cristiana e sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, i cattolici, nel seno delle loro comunità parrocchiali e dei gruppi laicali, non dovrebbero pian piano riscoprire la loro vocazione politica?
Riprendo quanto appena affermato, rispondendo alla sua domanda precedente: uno dei contributi fondamentali della moderna Dottrina sociale della Chiesa alla teoria politica è stata l’elaborazione del principio di sussidiarietà e l’enunciazione del principio di poliarchia (vedi Caritas in veritate, n. 57). Il principio di poliarchia, almeno nel senso sturziano e tocquevilliano, rimanda a un più ampio contesto di differenziazione della società, in cui accanto alla sfera del politico vi sono tante altre sfere di eguale dignità: quella economica, religiosa, artistica, e ugualmente produttrici di un particolare tipo di bene comune. In tal senso, con poliarchia-plurarchia possiamo intendere un contesto sociale retto da un ordine prodotto e mantenuto dal continuo interferire e competere di molteplici e reciprocamente irriducibili principi regolativi. Per questa ragione, i cattolici possono svolgere la loro “missione trasformante” e contribuire al “bene comune”, anche praticando la nobile arte imprenditoriale, lavorando in fabbrica, essendo attivi in parrocchia o in un qualsiasi altro centro culturale e associativo. La “vocazione politica” è una ben precisa chiamata che richiede specifiche competenze, attitudini e passione che non è detto che tutti abbiano e non è opportuno che in troppi ostentino. Sinceramente resto ancorato a quella definizione di “bene comune” presente nel paragrafo 6 della Dignitatis humanae, dove si afferma il suo carattere plurale, multidimensionale, poliarchico e dove si evince una opportuna relativizzazione del campo del “politico”: “Poiché il bene comune della società – che si concreta nell’insieme delle condizioni sociali, grazie alle quali gli uomini possono perseguire il loro perfezionamento più riccamente o con maggiore facilità – consiste soprattutto nella salvaguardia dei diritti della persona umana e nell’adempimento dei rispettivi doveri, adoperarsi positivamente per il diritto alla libertà religiosa spetta tanto ai cittadini quanto ai gruppi sociali, ai poteri civili, alla Chiesa e agli altri gruppi religiosi: a ciascuno nel modo ad esso proprio, tenuto conto del loro specifico dovere verso il bene comune. Tutelare e promuovere gli inviolabili diritti dell’uomo è dovere essenziale di ogni potere civile”
– La crisi che accompagna la politica italiana da parecchi decenni è strettamente connessa alla scissione fra la morale e l’impegno politico. Il pensiero e l’opera di Luigi Sturzo possono aiutarci nel ripensare, dal profondo, il legare fra morale e politica?
Qui lei tocca un autore che mi è particolarmente caro e al quale ho inteso dedicare i miei studi e la mia “vocazione civile”. Possiamo parlare del ruolo di Sturzo ricorrendo a due registri analitici, il primo ad intra, rispetto alle problematiche del mondo cattolico, ed il secondo ad extra, con riferimento al contributo offerto alla democrazia italiana. Rispetto al primo registro, Sturzo ha saputo raccogliere i pezzi di un laicato cattolico impantanato in un “intransigentismo” immobilista e a tratti reazionario e li ha ricomposti, conducendo il movimento cattolico nella direzione di un “intransigentismo flessibile” (per usare l’espressione di Gabriele De Rosa), di un intransigentismo riformista e democratico. Per Sturzo, l’intransigenza si misura sul terreno delle riforme sociali, dal grado di democrazia, dalla capacità di far valere il “metodo di libertà” contro quello di “autorità”, la “via istituzionale” contro l’arbitrio, la discrezionalità e la visione “pastorale-curiale” della politica. In tal modo, Sturzo ha tentato di sottrarre il laicato cattolico del primo dopoguerra dal richiamo della foresta, il fascino reazionario del “blocco d’ordine” esercitato dal fascismo, e ha testimoniato all’ormai ridotto mondo libero dell’epoca che i laici cattolici non erano incompatibili con la democrazia e con le istituzioni liberali, in quanto per ragioni teoriche il cattolicesimo è incompatibile con l’autoritarismo, il totalitarismo e qualsiasi forma di riduzionismo monistico. Rispetto al registro ad extra, Sturzo è stato colui che per primo ha individuato e denunciato i mali della democrazia italiana, individuando le famose “tre male bestie”: “statalismo, partitocrazia, spreco del denaro pubblico”. La denuncia di Sturzo nasceva dalla constatazione che le suddette “male bestie” negavano i tre pilastri teorici della democrazia: lo statalismo, ossia “l’intervento abusivo e sistematico dello stato nell’attività privata di qualsiasi specie, religiosa, culturale, artistica, educativa, economica e così via”, andrebbe contro il valore della “libertà”; la partitocrazia, ossia l’ingerenza irresponsabile di partiti e dei sindacati nelle funzioni del potere legislativo, andrebbe contro “l’uguaglianza”; la spreco del denaro pubblico andrebbe contro la “giustizia”: partitocrazia e statalismo, mediante il cattivo uso del denaro pubblico, deresponsabilizzano il corpo sociale e svuotano di significato etico l’azione umana. Chi se la sentirebbe di negare che, soprattutto in questi giorni, le suddette tre male bestie denunciate da Sturzo siano alla base degli enormi problemi economici, della scarsa produttività, dei casi di corruzione, dell’enorme debito pubblico che affliggono il Paese?
– Nella Laudato si’, Papa Francesco invita ad un ripensamento globale della politica a partire dalla connessione fra il rispetto della dignità umana e la tutela dell’ambiente. Se questo è un compito affidato ad ogni uomo di buona volontà, i cattolici, hanno un contributo specifico da dare alla politica?
Volendo aggredire immediatamente il tema concreto del rapporto uomo-ambiente da lei sollecitato, si tratta di un problema che andrebbe letto nel contesto della Dottrina sociale della Chiesa; detto altrimenti, la questione ambientale è parte della ben più ampia nozione di “ecologia umana”. In secondo luogo, credo che il contributo di Papa Francesco si possa riassumere tracciando un possibile paradigma, che offra uno strumento per descrivere lo scenario contemporaneo e chiarire gli obiettivi del Magistero sociale: la centralità della persona, creata a immagine e somiglianza di Dio. Infine, attraverso la Laudato si’, il Papa sembrerebbe delineare i contorni di tre aspetti cruciali: “l’ambiente come bene comune”, la denuncia del “paradigma tecnocratico” e il “consumismo”. A questo punto, sulla scorta dei tre aspetti che ho evidenziato poc’anzi, il contributo specifico che i cattolici possono dare alla politica è intraprendere “la via istituzionale della carità”; ossia, essere protagonisti del processo istituzionale, vivendo radicalmente il Vangelo. In tal senso, così come Paolo VI ci ha insegnato che la politica può essere la “più alta forma d carità” e Benedetto XVI ci ha indicato nella “via istituzionale”, il metodo per implementare tale virtù, Papa Francesco ci dice che l’obiettivo che dovremmo prefiggerci, anche in quanto cattolici, è dar vita ad un sistema istituzionale che consenta l’inclusione sociale. Includere significa condividere, partecipare, passare dalla condizione di estraneo e di disadattato a quella di integrato e di soggetto attivo; in pratica, significa passare dalla condizione di suddito a quella di cittadino sovrano. Per questa ragione, è necessario liberare i poveri dalle “catene della povertà”, ossia da quella selva di impedimenti di natura giuridica, politica, economica e culturale che costringe una parte della società ad essere relegata ai margini del contesto civile e finire per giocare un ruolo tanto residuale e umiliante, quanto essenziale al funzionamento di un sistema estrattivo ed escludente: quello dei clientes che giocano il ruolo di elettori occasionali ed imperterriti consumatori. Inclusione significa, in primo luogo, non ammettere alcuna pretesa rendita, tanto meno monopolistica, su alcuna fonte di reddito e operare affinché nessuna pretesa rendita possa trovare una qualsiasi soddisfazione. Inclusione sociale significa educare alla cultura della condivisione e predisporre un rigoroso sistema istituzionale che impedisca e punisca i tanti o i pochi, e comunque sempre troppi, percettori di rendite di monopolio, che si tratti di rendite politiche, economiche e culturali.
Intervista a cura di Rocco Gumina