“Sviluppare capacità per gestire i cambiamenti” Intervista ad Annalisa Lo Magno

“Sviluppare capacità per gestire i cambiamenti” Intervista ad Annalisa Lo Magno

21 Giugno 2018 0 Di Rocco Gumina

Sull’orientamento verso il mondo del lavoro 4.0, abbiamo intervistato la psicologa Annalisa Lo Magno che si occupa da diversi anni della relazione fra giovani e dimensione lavorativa.

 

– Quali sono le regole fondamentali per orientarsi nell’attuale mondo del lavoro?

Orientarsi nell’attuale mondo del lavoro significa prendere coscienza di sé, della realtà occupazionale e del proprio bagaglio cognitivo per poter progredire autonomamente nelle scelte in maniera efficace e congruente con il contesto. Diventa dunque importante la ricerca e la comprensione della propria identità e del proprio ruolo in una determinata realtà. Altresì importante è lo sviluppo di un atteggiamento flessibile, declinabile in risorse e strumenti, con cui affrontare le transizioni richieste dal mercato del lavoro. Nell’ottica dell’empowerment (avere potere sulla propria vita), cambiare “bene” è possibile, a patto che l’individuo assuma, almeno in parte, il ruolo di soggetto attivo del proprio cambiamento, e non il ruolo di soggetto passivo che subisce il cambiamento senza avere alcun potere su di esso. In quest’ottica, il cuore del processo di cambiamento sta proprio nell’apertura di nuove possibilità in aggiunta, e non in sostituzione, a quella/e precedente/i. Cambiare significa aggiungere e, forse, ma non necessariamente, mettere in opera nuove possibilità. La costruzione di possibilità mentali personali permette all’individuo di scegliere e, di conseguenza, di non abdicare mai del tutto al sentimento di responsabilità e di protagonismo sulla propria vita. Orientarsi nell’attuale mondo del lavoro significa pertanto attivare un processo ciclico volto a favorire la maturazione e lo sviluppo delle competenze necessarie per poter definire autonomamente obiettivi personali e professionali aderenti al contesto, elaborare o rielaborare un progetto di vita e sostenere le scelte relative.

 

– A tuo parere, il sistema d’istruzione italiano (scuola secondaria di secondo grado, università) prepara al meglio gli studenti all’ingresso nella realtà del lavoro? Occorre migliorare qualcosa?

Il sistema di istruzione italiano dovrebbe oggi riflettere maggiormente sull’esigenza di potenziare negli studenti le Career Management Skills, ovvero gli strumenti cognitivi e psicosociali per affrontare i percorsi non lineari di carriera e le transizioni ricorrenti e migliorare così i requisiti di occupabilità, indipendentemente dai livelli formali di qualificazione.  Nei contesti di lavoro i giovani e gli adulti sono oggi incoraggiati ad assumersi responsabilità dirette per il loro futuro incerto e ad accettare, come prescrizioni necessarie e indiscutibili, le indicazioni a divenire più flessibili, a sviluppare capacità per gestire i rapidi cambiamenti, a stare al passo con le nuove conoscenze, a divenire ‘imprenditori di se stessi’ riprogettando di frequente il proprio percorso di carriera. Il sistema di istruzione dovrebbe dunque lavorare sulla competenza riflessiva e progettuale centrata sul self e sul life design dei propri studenti per contrastare la riduzione dei punti di riferimento esterni, con cui tradizionalmente si definivano i percorsi di carriera psicosociale, e per riuscire a far ricavare dalle esperienze fatte nei diversi ambiti di vita le direzioni del proprio sviluppo, gli ambiti in cui vale la pena investire le proprie energie, i progetti coerenti con l’immagine di sé.

 

– Perché si parla sempre più spesso di “generazione NEET”? Di che si tratta?

NEET è l’acronimo inglese di “Not (engaged) in Education, Employment or Training” e indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione. L’acronimo è stato utilizzato per la prima volta nel 2002 in un articolo dal titolo Social exclusion and the transition from school to work: the case of young people Not in Education, Employment, or Training (NEET). L’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di giovani NEET. Un italiano su quattro tra i 15 e i 29 anni non lavora, né studia, né si sta formando, mentre la media europea è del 14,2%. Ma chi sono i giovani NEET? Grazie al mio lavoro con questa categoria di persone posso dire che i NEET sono un insieme di storie, l’una diversa dall’altra. Ma volendo individuare un comune denominatore devo purtroppo evidenziare che esso è rappresentato da una grande sfiducia nei confronti del futuro lavorativo. Il NEET molto spesso è infatti colui che ha smesso di coltivare un sogno, colui che davanti a sé vede soltanto la strada della non occupazione. Prioritario diventa quindi incidere su questo elemento per evitare il rischio che questi giovani si trasformino nel tempo in disoccupazione strutturale, una componente che nemmeno i contratti più flessibili riuscirebbero a inserire nel mondo del lavoro, con conseguenze a catena anche dal punto di vista pensionistico.

 

– Sembra che negli ultimi anni la distanza tra la domanda e l’offerta di lavoro sia cresciuta. Perché?

La questione presenta due aspetti, ovvero quanto le imprese riescono a trovare i candidati che cercano e quanto i candidati riescono a trovare le imprese di interesse. Relativamente al primo aspetto è da evidenziare la necessità di un dialogo tra scuola, formazione, università e lavoro, inteso come interazione stabile e strutturata, non temporanea e contingente, tra sistemi di istruzione e formativi aggiornati e sistemi lavorativi aperti. In questo senso un ‘metodo di coordinazione aperto tra i sistemi’, centrato in primo luogo sullo scambio conoscenze scientifiche e di buone pratiche e sul benchmarking rappresenterebbe lo strumento per generare un’ideale forma di governance leggera che indirizzi i sistemi verso comuni obiettivi. Relativamente al secondo aspetto, le abilità di gestione di carriera, già menzionate, dovrebbero aiutare il job applicant a riformulare il suo personale progetto professionale alla luce delle nuove esigenze del mercato del lavoro. Primariamente però chi cerca lavoro non dovrebbe in alcun momento tralasciare che, come scriveva Seneca, “Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare”.

– Se i percorsi di formazione universitaria di natura tecnica sono molto richiesti dal mercato del lavoro, quali scenari professionali possono aprirsi per i laureati nell’ambito umanistico (filosofi, storici, psicologi, sociologi ecc.)?

Credo che bisogna partire subito dallo sfatare una falsa credenza. Le recenti indagini sull’occupazione dei laureati mostrano infatti un più elevato tasso di occupazione, rispetto agli anni precedenti, per i laureati in ambito umanistico. Le aziende oggi sono più easy e richiedono ruoli maggiormente legati alla persona e alla sua velocità di pensiero. Hanno quindi bisogno di personale che dimostri competenze vicine ai laureati in ambito umanistico quali la capacità di analisi dei contesti socio-culturali e di interpretazione dei bisogni delle persone. I laureati in ambito umanistico devono allora riflettere su due aspetti importanti: il potenziamento delle proprie soft skills e la ridefinizione del proprio obiettivo professionale. Autonomia, Fiducia in se stessi, Flessibilità/Adattabilità, Resistenza allo stress, Capacità di pianificare ed organizzare, Precisione/Attenzione ai dettagli, Apprendere in maniera continuativa, Conseguire obiettivi, Gestire le informazioni, Essere intraprendente/Spirito d’iniziativa, Capacità comunicativa, Problem Solving, Team work, Leadership sono le soft skills oggi ritenute fondamentali in qualsiasi contesto lavorativo. Il secondo aspetto riguarda la capacità di ridefinire il proprio obiettivo professionale sulla base delle continue sollecitazioni di cambiamento provenienti dal mercato del lavoro. È importante non tralasciare che la costruzione della carriera è un processo multideterminato, che interconnette i vari ambiti e ruoli significativi della persona e che risulta dislocato in una prospettiva temporale di medio-lungo periodo.

 

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

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