“Fede e politica debbono innestarsi a vicenda”. Intervista a don Massimo Naro

“Fede e politica debbono innestarsi a vicenda”. Intervista a don Massimo Naro

7 Febbraio 2020 0 Di Rocco Gumina

(Intervista apparsa sul sito “Tuttavia.eu” 24 novembre 2019)

A cento anni dalla fondazione del Partito Popolare Italiano e a sessant’anni dalla scomparsa di don Luigi Sturzo, riprendere la lezione del presbitero siciliano è operazione utile per quanti da credenti sono impegnati in politica e nel sociale.

Sulla rilevanza spirituale e culturale degli insegnamenti sturziani, abbiamo intervistato don Massimo Naro. Presbitero della diocesi di Caltanissetta, Naro è direttore del Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata” e docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Di recente, insieme a Nicola Antonetti, Naro ha curato il volume – pubblicato da Il Mulino nel 2019 – Il municipalismo di Luigi Sturzo. Alle origini delle autonomie.

 

 

Alla radice dell’impegno pubblico-politico di Sturzo vi è una spiritualità che possiamo definire “civica”. In cosa consiste?

 

È il suo “peculiare” contributo alla cultura municipalista. Dico “peculiare” perché don Sturzo era comunque, e pur sempre rimaneva, un prete: e il piano su cui si pone un prete è innanzitutto quello spirituale. Nel caso di Sturzo, si trattava di un prete “leoniano”, cioè uno di quei preti che si erano formati, a cavallo tra Otto e Novecento, a Roma, durante il pontificato di Leone XIII. Il quale nel maggio 1891 aveva promulgato la Rerum novarum, la prima grande enciclica sociale dell’epoca contemporanea, in cui il papa aveva rivolto l’appello ai cattolici “a uscir fuori di sagrestia”.

 

Nella Roma di Leone XIII, tutta percorsa dalle nuove tensioni e aspirazioni sociali, il giovane don Sturzo aveva studiato non solo teologia ma anche sociologia, proprio perché aveva intuito che “uscir fuori di sagrestia” era un invito a socializzare il vangelo, a non farne più una faccenda per iniziati e men che meno un prontuario di semplici devozioni: il vangelo dev’essere seminato nel campo vasto del mondo per potervi fruttificare al modo del piccolo granellino di frumento che però poi diventa spiga e si moltiplica a non finire.

 

In questa prospettiva, la spiritualità civica era il contrario di una spiritualità solo intimistica, individuale, alienata dalla vita comune, astratta e disincarnata. Era, piuttosto, una spiritualità proiettata appunto fuori di sagrestia, si potrebbe dire anche declericalizzata, vissuta non soltanto da preti, da monaci e da suore, ma alla portata di tutti. Era una spiritualità che si incaricava dei problemi concreti della vita comune, della vita di tutti, della vita quotidiana.

 

Per Sturzo si trattava di sanare il divorzio tra vita quotidiana e preghiera, tra contemplazione e azione, tra spiritualità e storia, che si era consumato durante l’epoca moderna. E, allo stesso tempo, di superare l’alleanza fra trono e altare che aveva caratterizzato il cosiddetto ancien régime. L’alleanza che si doveva instaurare era, ormai, quella tra vangelo e storia, tra fede e vita quotidiana, tra la speranza di raggiungere la città celeste e la speranza di avere il diritto alla cittadinanza nella città terrena, specialmente dopo che con l’Unità d’Italia il cattolicesimo era stato marginalizzato nel Paese, costretto a fuoriuscire dalla scena pubblica anche per via del non expedit.

 

Insomma una spiritualità vissuta nel mondo capace di mantenere un chiaro profilo cristiano…

 

Direi, piuttosto, che manteneva un marcato profilo evangelico: per Sturzo, infatti, si trattava di mettere in pratica la logica del discorso della montagna, che è proprio quella del lievito e del sale: il lievito fermenta la pasta, ma per riuscirvi si scioglie dentro di essa; il sale dà sapore alla pasta, per riuscirvi si scioglie a sua volta. Lo stesso Gesù, nel discorso della montagna, suggeriva ai suoi discepoli di essere come la lucerna sul tavolo, per illuminare tutta la stanza, ma al contempo suggeriva pure che la sinistra non sapesse cosa fa la destra, e consigliava di pregare a porte chiuse, in camera e non nelle piazze.

 

Don Sturzo recuperava questo insegnamento evangelico: il 17 dicembre del 1918, in una delle ultime riunioni preparatorie prima della fondazione ufficiale del PPI, a Roma, disse ai suoi collaboratori che dovevano scendere nell’agone politico non con stendardi e con gonfaloni, ma con il “vangelo nascosto in petto”. Riecheggia, in questa affermazione, la lezione di un anonimo autore cristiano della fine del secondo secolo – l’autore della Lettera a Diogneto – per il quale i cristiani sono l’anima del mondo, ma – appunto – come l’anima nel corpo essi rimangono invisibili, e uniti al corpo stesso, al resto dell’umanità.

 

È da questo orizzonte che deriva l’idea di aconfessionalità del PPI. Un’idea che non coincideva con l’odierna nostra concezione della laicità – ad esempio alla francese – come contrapposizione alla fede, perché con l’aconfessionalità Sturzo non chiedeva ai sodali del suo partito di rinunciare alla loro fede cristiana, ma semmai di fare politica per il bene di tutti, anche di chi cattolico non era e in base a un programma di intervento politico che fosse equo e volto al bene comune.

 

Sturzo ricavò queste sue intuizioni da un orizzonte di matrice riformista, ispirato da uno spiritualismo autenticamente cristiano, teso a rinnovare la carne del mondo. Gabriele De Rosa ha definito, nel 1972, questa tensione profetica come “l’utopia di Luigi Sturzo”. Era la maniera sturziana, non clericale e nemmeno teocratica, di interpretare il motto di Pio X: instaurare omnia in Christo. Instaurare, appunto. Non, invece, restaurare.

 

Non c’era, in Sturzo, nessuna inclinazione reazionaria, così come non ce n’era nessuna rivoluzionaria. Non si trattava, per lui, di lanciare la riconquista cattolica della società, ma di ridestare l’attitudine sociale e civica del cattolicesimo, la sua indole storica e “secolare”, la sua capacità di stare nel mondo per svolgervi un compito squisitamente evangelico.

 

 

A molti anni dagli insegnamenti sturziani, i cattolici continuano ad interrogarsi sulla loro rilevanza sociale e politica. Oggi come potremmo riproporre la spiritualità “civica”?

 

A partire dallo stesso cespite cui attingeva don Sturzo: cioè a partire dal vangelo. Dal vangelo emerge un criterio di azione che il credente può praticare anche in senso politico. Mi piace formulare tale concetto con una polarità apparentemente tautologica: portarsi dentro l’altro e portarsi l’altro dentro, cioè tentare di entrare in rapporto dialogico con un orizzonte valoriale e culturale diverso dal proprio e nondimeno dischiudere agli altri il proprio patrimonio di idee e di ideali.

 

Don Sturzo, a mio parere, viveva questo tipo di ideale evangelico, che è lo stesso che veniva rilanciato nella Lettera a Diogneto, secondo cui non è lecito ai cristiani disertare il posto che Dio ha loro assegnato nella storia, dentro la città degli uomini. Possiamo definire “civica” questa spiritualità, che restava pienamente compatibile con il ministero presbiterale di Sturzo, senza tuttavia rassegnarsi a rimanere intimistica o levitica, esclusivamente interna a un orizzonte sacrale.

 

Sostenuta da una salda consapevolezza samaritana, tendeva piuttosto a zampillare da una fontana posta al centro della città. Voleva radicarsi sul piano sociale, respirando l’afflato della passione civile.

 

 

Nel novembre del 2017, nella diocesi di Roma, si è conclusa positivamente la prima fase del processo canonico per la beatificazione di don Sturzo. Alla luce della sua testimonianza si può dire che politica e santità siano chiamate a convivere?

 

Penso che santità e politica possano stare insieme, pur senza coincidere tra di esse. Direi che esse possono costituire una sorta di binomio. I matematici ci direbbero che il binomio è la somma algebrica di due monomi rigorosamente differenti. Il binomio, infatti, è possibile solo quando le misure di cui si compone sono diverse, non reciprocamente assimilabili, tanto da non potersi confondere: esse stanno insieme, si intrecciano l’una all’altra, senza però dismettere i loro connotati. Nel nostro caso, la santità e la politica possono stare insieme, formando un binomio, proprio in forza della loro differenza.

 

Santità e politica costituiscono un binomio non solo possibile, ma persino necessario, nel senso che se esse vogliono confrontarsi e stare in rapporto, allora devono accettare il peso della loro differenza, lasciandosi costantemente interpellare e forse anche inquietare l’una dall’altra. E tuttavia, alla fine, ci si dovrà rendere consapevoli che santità e politica costituiscono un binomio solo possibile, cioè non scontato, non ovvio, ogni volta sudato e faticato, messo in pericolo dalla stessa differenza che c’è e rimane tra santità e politica e che, comunque, non può cessare d’esserci perché è costitutiva del loro rapporto.

 

Si vede bene che questo modo di pensare il rapporto tra santità e politica non è freddamente matematico. È piuttosto paradossale. Il paradosso, parente stretto dell’ossimoro, è una figura retorica che spesso rischia di essere confusa con la contraddizione. Il paradosso, in verità, non è una contraddizione.

 

La contraddizione è costituita da due proposizioni o da due realtà che per la loro radicale diversità si elidono a vicenda: delle due, soltanto una può rimanerne, se non capita addirittura che esse si annullino reciprocamente. Il paradosso, invece, è costituito da due proposizioni o da due realtà radicalmente diverse che però si esigono a vicenda: esse non solo non si escludono, ma per essere vere devono continuamente fare riferimento l’una all’altra.

 

La qualità paradossale del rapporto tra santità e politica, dunque, rivela una reciproca coimplicazione dell’una nell’altra, che ci permette di intuire subito quale dovrà essere l’esito della nostra riflessione: dovremo arrivare a dire che si può essere “santi in politica” e, al contempo, che si può essere “politici in un orizzonte di santità”. La santità infatti non è un’astrazione angelica: essa necessita di situarsi nell’orizzonte terreno della città, della convivenza degli uomini; e la politica, per parte sua, non è un valore assoluto, ma ha bisogno di radicarsi e di ancorarsi a ciò che precede e supera l’orizzonte della città e della convivenza degli uomini.

 

Alla luce del detto gesuano “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, una certa interpretazione odierna della laicità mira a separare radicalmente la spiritualità, e il cristianesimo, dall’agire pubblico. Sturzo, come ha inteso questa frase evangelica?

 

Gustavo Zagrebelsky, in suo libro di qualche anno fa intitolato Scambiarsi la veste, ha commentato questa frase di Gesù in un modo che io condivido molto: un modo inconsueto, non allineato con l’ermeneutica laicista che di solito si fa di questo insegnamento di Gesù. Per Zagrebelsky quella frase gesuana non può essere considerata un manifesto della laicità moderna, pena il rischio di scivolare nell’anacronismo.

 

Infatti, bisogna riportare la frase al contesto culturale e religioso del tempo di Gesù: il tempo del giudaismo ortodosso, ancora consapevole del valore altissimo della professione di fede formulata nel cosiddetto Shemà Israel, che annunciava il primato di Jhwh Adonai nella vita del credente e che declinava le forme di un monoteismo “totalizzante”, in quanto investiva e impegnava il credente biblico in ogni dimensione della sua esistenza e in ogni momento della sua vita. Il credente doveva avere rapporto d’amore solo con l’unico Dio, sempre e dovunque, quando stava sveglio e quando dormiva, quando camminava per strada e quando sedeva a casa propria, quando trattava i suoi commerci e quando stava con i suoi familiari, in ogni sua attività pubblica e anche in privato, legandosi un filo al dito e dipingendo lo stipite esterno della sua abitazione come promemoria di questo precetto, per essere sempre nella condizione di ricordarselo e di farselo ricordare dagli altri.

 

Se si ha a che fare con il Dio della Bibbia, allora Questi dev’essere il Tutto della vita di chi crede e tutta la vita del credente dev’essere ricondotta a Dio.

 

In questa prospettiva dev’essere compreso l’insegnamento di Gesù di «dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»: queste parole del Maestro di Nazareth non affermano l’inappellabile distinzione e perciò l’insormontabile distanza tra politica ed esperienza religiosa, ma dichiarano il primato di Dio e la parzialità, come pure la secondarietà, della politica. Il Dio di cui parla Gesù è lo stesso Jhwh Adonai dello Shemà Israel, e quindi a Cesare si deve una parte della vita dell’uomo, mentre a Dio si deve tutta la vita, anche quella parte che si deve a Cesare. Gesù, dicendo questo, non si sta rivolgendo a un politologo dei nostri giorni, ma ai suoi conterranei e ai suoi contemporanei, che volevano metterlo alla prova per accusarlo nel caso avesse detto che bisogna servire solo Cesare oppure solo Dio.

 

Egli perciò risponde − in termini molto comprensibili a gente che aveva la necessaria sensibilità teologica − che bisogna sì render conto a Cesare per quel che compete Cesare, ma bisogna pure render conto a Dio per quel che compete Dio: e cioè per tutto, per ogni momento della nostra vita, in privato e in pubblico, poiché solo Dio è Dio, mentre Cesare è soltanto Cesare.

 

Se le cose stanno così, allora la laicità intesa alla francese, come divaricazione tra fede e politica, non è l’ermeneutica più corretta della frase di Gesù. Che, difatti, crea un certo disagio sia al credente sia al laico. È il disagio interiore che persino don Luigi Sturzo provò quando, pur essendo prete, cominciò a occuparsi direttamente di politica e di amministrazione pubblica, facendo il pro-sindaco di Caltagirone dal 1905 al 1920.

 

Non si trattò, per lui, semplicemente del disagio di non essere in regola con il non expedit pontificio, che vietava ai cattolici di fare politica nella nuova Italia unificata; si trattò, per lui, di fare i conti con l’apparente inconciliabilità di due misure parimenti radicali, dotate entrambe del profilo alto della vocazione e del destino: per un lato “sacerdote” e perciò delegato a farsi santo – ovvero a mettersi in disparte, a fuggire dal mondo –  per un altro lato “politico” e perciò deputato a porsi in capo al mondo.

 

Gli storici hanno rilevato che don Sturzo scelse di farsi carico di questo dissidio, dividendo in compartimenti stagno la sua vita: esplicando le sue mansioni di pro-sindaco egli si autosospese dall’esercizio delle funzioni sacramentali e pastorali del suo ministero sacerdotale, per non indurre qualcuno − specialmente tra gli avversari − a presumere che egli volesse strumentalizzare i sacramenti per esempio, per carpire segreti in confessione.

 

In realtà, mentre andava vivendo quel suo interiore dissidio, egli ripensava pure il rapporto − nella concretezza della sua stessa vicenda − tra spiritualità e politica, accorgendosi che esse sono due dimensioni differenti che però possono e debbono innestarsi a vicenda.

 

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

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