“I cristiani non possono ripiegare nel privato”. Intervista a Fabio Mazzocchio

“I cristiani non possono ripiegare nel privato”. Intervista a Fabio Mazzocchio

12 Giugno 2018 0 Di Rocco Gumina

Fabio Mazzocchio, dottore in Filosofia, svolge attività didattica e di ricerca presso l’Università di Palermo. Dal 2005 al 2011 è stato Direttore dell’Istituto per lo studio dei problemi sociali e politici “Vittorio Bachelet” (Roma). Si occupa dei seguenti temi di ricerca: intersoggettività e razionalità nell’etica e nella teoria politica contemporanea; il pensiero cristiano del ‘900.

 

Quello fra i cattolici e la politica risulta essere un connubio fra i più interessanti, e allo stesso tempo complessi, del panorama socio-politico della storia italiana. Quali le motivazioni?

Credo che i motivi siano tanti e da ricercare nella particolare posizione che i cattolici hanno assunto sin dall’Unità d’Italia e, in seguito, nella fase della ricostruzione postbellica, passando per l’età fascista.

Sono fasi differenti, ma tutte caratterizzate da un contributo rilevante, anche se diverso, alla vita sociale e civile del Paese. In particolare, con la nascita della Repubblica i cattolici si sono distinti per il grande contributo di idee dato alla fase costituente, segnalandosi tra i più convinti assertori dei principi democratici e della valorizzazione dei corpi intermedi. La complessità del rapporto tra cattolici e politica, inoltre, è data dalla paradossale posizione che i cristiani hanno nella realtà civile. Essi sono chiamanti ad impegnarsi nel mondo sapendo però che la realtà temporale non è assoluta e che, quindi, il loro operare cercando di orientare il mondo secondo i valori cristiani è sempre legato alle fasi storiche. Le leggi positive non possono mai risultare eccellenti o in grado di costruire una società perfetta. Questo sarebbe ingenuo pensarlo.  

C’è differenza fra la proposta di una politica cattolica e l’attività dei cattolici in politica? Possiamo ancora parlare di “politici cattolici”?

Certamente si può parlare di politici cattolici nel senso che fanno parte della comunità ecclesiale o più semplicemente si dicono credenti. Una proposta politica cattolica esiste, ma oggi non si configura in Italia attraverso un partito unico dei cattolici. Esistono una molteplicità di soggetti e di individui che si ispirano all’insegnamento sociale della chiesa e ai valori cristiani. La difficoltà, in un tempo di imperante relativismo e di riconoscimento del pluralismo come cornice fondativa della democrazia, è quella di proporre visioni forti della realtà, che abbiano diritto e capacità per essere accettate da tutti o dalla maggioranza.

 Dall’unità d’Italia in poi, i cattolici hanno contribuito allo sviluppo sociale, politico ed economico della nostra nazione. In particolare, all’indomani della seconda guerra mondiale, il cattolicesimo democratico ha segnato sia la formazione di diverse generazioni di credenti sia un grande apporto alle istituzioni di ogni livello. Oggi, tale sensibilità si è smarrita?

 

Purtroppo in gran parte la vicenda del cattolicesimo democratico, che ha avuto in Sturzo, De Gasperi e Moro forse gli esempi storici più significativi, pur nella loro differenza, si è smarrita per vari motivi. Tra questi certamente la fine della DC, la fase bipolare e la desertificazione di tanti mondi vitali che ruotavano attorno all’esperienza popolare e che oggi fanno fatica ad esprimersi in modo significativo sul piano civile. Basta pensare alle difficoltà dell’associazionismo cattolico nel proporsi come voce accreditata all’interno del dibattito pubblico italiano, anticipandone ad esempio l’agenda o promuovendo soluzioni importanti per i problemi della vita comune.

 A suo parere, la crisi dell’impegno e della riflessione dei cattolici italiani in politica è stata segnata da eventi come il Concilio Vaticano II, il crollo del muro di Berlino e la fine della Democrazia Cristiana?

I motivi della fine del Partito cattolico sono molti. Dal mio punto di vista le vicende internazionali hanno contato, ma soprattutto il mancato rinnovamento del Partito e la sua connessa non rivitalizzazione negli anni Settanta ne hanno segnato l’inesorabile implosione. Segnata da scandalosi comportamenti a tutti i livelli e dalla perdita progressiva dei contatti con i mondi vitali, che di quella esperienza partitica erano l’anima. Con la morte di Moro il destino era segnato. È stata una lenta e inesorabile agonia, camuffata da estenuanti liturgie dentro e fuori il partito.

 Il numero 75 della costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II afferma l’esistenza di “una speciale vocazione dei cristiani alla politica”. Di cosa si tratta?

Si tratta anzitutto della valorizzazione della dimensione pubblica come luogo di sviluppo della vita personale e comunitaria. I cristiani non possono ripiegare nel privato e vivere irenicamente le proprie convinzioni, ma devono mantenersi fedeli alla promessa di essere sale e luce del mondo anche attraverso l’azione operosa nel campo politico-sociale. I credenti però – ci ricorda proprio la Costituzione conciliare qui citata – devono vivere quest’impegno come uno speciale servizio e una particolare dedizione allo sviluppo integrale della persona, attraverso vie di realizzazione del bene comune che partono dalla promozione della giustizia come elemento essenziale della buona vita della polis. In tal modo, la dimensione politica mostra il suo vero volto di carità per la vita di ogni uomo e richiama tutti alla responsabilità della partecipazione, a viario titolo e modo, alla vita delle Istituzioni. 

 La celebrazione a Firenze del V Convegno Ecclesiale Nazionale “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” segna un momento importante per la chiesa italiana. Per Jacques Maritain, sia la teoria capitalista, sia quella socialcomunista poteva essere superata da “un umanesimo integrale”. C’è relazione fra il tema scelto dai vescovi italiani e il pensiero del filosofo francese? I presupposti avanzati dal pensatore d’Oltralpe sono ancora attuali?

Vi è certamente relazione. Non in modo diretto però. L’umanesimo è da sempre un tratto decisivo delle riflessioni cristiane e della stessa natura evangelica di questa religione.  Certamente ritengo attuali le indicazioni di fondo di Maritain, soprattutto le sue intuizioni sul versante etico-politico. Ne indico alcune tra le più note: la visione “strumentale” della Stato come istituzione totalmente fondata sul primato della persona e dei suoi fondamentali diritti; l’idea della politica come impegno etico per uno sviluppo umano integrale (e non mera tecnica di amministrazione del reale); la fede nei valori democratici come unici capaci di rispondere all’alta dignità degli esseri umani nell’esercizio delle proprie libertà. Sono alcuni dei punti del grande pensatore francese che ancora risultano di notevole rilevanza per una teoria politica all’altezza dei tempi.

 

Dai territori e dalle città si alza sempre più la richiesta di una democrazia partecipata. Al netto delle strumentalizzazioni, fino a che punto è possibile coordinare la cittadinanza attiva con una democrazia partecipata? Qual è l’apporto che i cattolici possono dare?

 

La partecipazione oltre che un diritto è un vero e proprio dovere. Si parla sempre più di cittadinanza attiva e di partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica attraverso gli strumenti che la legge consente. Mi pare che le democrazie contemporanee abbiano bisogno non solo di cittadini consapevoli e operosi, ma di trovare un assetto davvero poliarchico. Mi spiego meglio. Bisogna che i cittadini si rendano conto che la vita democratica è tanto più viva ed espansiva quanto il potere democratico diventa partecipato e dislocato su più soggetti con funzioni differenti, che rispondano non solo alle esigenze centrali della vita statale, ma soprattutto alle esigenze amministrative dei territori. Non è facile armonizzare tutto ciò, però è una sfida interessante per bilanciare il potere centrale con le esigenze provenienti dal basso. 

Perché L’Italia e la Sicilia hanno radicale bisogno di una politica e di una educazione improntate alla ricerca del bene comune?

Sarò lapidario. Perché senza l’idea alta del bene comune c’è solo la triste rappresentazione della lotta di tutti contro tutti. Quando i fini privati prevalgono sull’interesse generale allora la società rimane schiacciata da egoismi di varia natura che stritolano la vita civile in modo disumanizzante. Educare le nuove generazioni al senso del bene comune è interesse di tutti, in particolare dei cristiani se vogliono che la testimonianza trovi spazio concreto nella storia e nelle istituzioni che la governano.

Lei è stato il direttore dell’Istituto “Vittorio Bachelet”. La testimonianza di Bachelet cosa può trasmettere alle future generazioni di cittadini e di credenti?

Si tratta di un esempio luminoso di cristiano laico impegnato nella vita civile e istituzionale del nostro Paese. La sua morte, per la mano efferata delle BR, ci ricorda che i cristiani se servono autenticamente le Istituzioni, al di là delle appartenenze, rischiano davvero il martirio. Egli fu testimone di una fede incarnata nella storia e nel tempo. Un esempio di santità vissuta nell’ordinario della vita e nella ferialità delle vicende personali e sociali. Un testimone coraggioso della paradossale condizione cristiana, che riconosce l’importanza delle istituzioni umane e delle leggi positive, sapendo però che in esse non si realizzano perfettamente gli assoluti in cui il credente pone la propria speranza, ma si tratta di strumenti perfettibili che bisogna orientare al servizio dell’umano con saggezza e capacità di continua mediazione.

 

 

Intervista a cura di Rocco Gumina

 

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